I rapporti dell’Ocse, organismo intergovernativo in cui i Governi nazionali hanno una forte voce in capitolo, devono sempre giungere a quella che il commediografo Edward Albee chiamava a delicate balance – un equilibrio molto delicato tra quanto intende dire lo staff dell’Organizzazione e quanto i Governi sono pronti a recepire e soprattutto a utilizzare anche per i loro fini interni. Ciò è tanto più vero se il Vicedirettore Generale e responsabile degli studi economici è stato il consigliere economico di un Presidente del Consiglio espresso da una parte politica ora all’opposizione.



Questa è una premessa essenziale per leggere e interpretare il documento sull’Italia appena presentato. È un rapporto “ineccepibile” tanto nelle diagnosi della crisi economica quanto nelle prescrizioni. È tanto “ineccepibile” da essere meno utile di quel che sarebbe potuto essere se fosse stato non dico guascono, ma almeno più franco e diretto. Specialmente per quanto riguarda le politiche di crescita e sviluppo che il rapporto vede in gran misura agganciate alle politiche di liberalizzazione. Non che tali politiche non siano essenziali. Lo sono. E come! Lo documenterà tra pochi giorni il Nono Rapporto di Società Libera. Da sole, però, avranno effetti limitati.



Ma andiamo con ordine, soffermandoci, in primo luogo, sul breve periodo. Le previsioni dell’Ocse sono più ottimistiche di quelle di molti altri organismi internazionali o istituti di ricerca economica: la crescita dell’Italia sarebbe dell’1,2% nell’anno in corso, ma dell’1,6% il prossimo. Il modello econometrico Multimod utilizzato a Chateau de la Muette, sede parigina dell’Organizzazione, è della stessa famiglia di quelli del Fondo monetario e della Commissione europea; si basano tutti sul modello Link costruito dal Premio Nobel Lawrence Klein. L’aumento è significativamente superiore alla media di quelli diramati il 7 maggio dai venti maggiori istituti econometrici internazionali (1% per il 2011 e 1,2% per il 2012).



Più importante dello scarto è che se le stime Ocse si realizzeranno si sfaterà la conclusione raggiunta non molto tempo fa da Commissione europea e da Banca centrale europea (Bce) secondo cui il tasso naturale potenziale di crescita dell’economia italiana si aggira sull’1,3% l’anno. Ciò vuol dire che il programma di riforme in parte realizzato (previdenza, normativa sul lavoro) e in parte appena iniziato (scuola, università, pubblica amministrazione) sta dando già alcuni frutti. Tuttavia, scavando più a fondo, si constatata che le stesse determinanti strutturali della società e dell’economia italiana che hanno tenuto il Paese al riparo dagli effetti più gravi della crisi finanziaria sono quelli che si pongono come freni a una politica di crescita. L’Ocse avrebbe fatto bene a dirlo più apertamente.

In primo luogo, una demografia anziana – il 20% della popolazione ha più di 65 anni, l’età media dei lavoratori dipendenti è attorno a 45 anni – fa sì che i risparmiatori italiani (il tasso di risparmio delle famiglie è ancora elevato, il 12% del reddito disponibile) venga collocato in investimenti “che non danno pensiero”, quasi sempre alla scopo di integrare le pensioni, e non in intraprese innovative (ma, quindi, anche rischiose). Sono anziani anche funzionari, dirigenti e manager di banche e finanziarie; la loro cautela ci ha tenuto al riparo dai nodi venuti al pettine nel 2007-2010, ma non suggerisce che siano pronti ad abbracciare una strategia finanziaria attiva in supporto di una più aggressiva politica di sviluppo.

Il silenzio dell’Ocse in materia di politica per la famiglia e per promuovere la crescita demografica è, francamente, assordante. È tema per alcuni poco politically correct in epoca di forme alternative di matrimonio o anche di matrimoni sequenziali e famiglie plurime. Ma se non si affronta questo nodo non si fa politica di sviluppo di respiro e a lungo termine. Demografia anziana vuol anche dire corporazioni che si difendono dall’ingresso di altri (in primo luogo i giovani) nei loro “giardinetti”: eloquenti gli studi di Andrea Mattiozzi (California Institute of Technology) e Antonio Merlo (University of Pennsylvania) sulla “mediocrazia” del sistema corporativo italiano, analogo a quello giapponese (la cui economia ristagna da oltre un decennio) nel chiudersi a generazioni nuove e innovative. La cancellazione del progetto di legge sulle tariffe minime per gli avvocati e l’accordo sui taxi a Roma (fortunatamente saltato perché contestato da Antitrust e Tribunali) dovrebbero essere i primi, immediati segnali di una svolta per lo sviluppo.

Il sistema industriale, inoltre, ha retto bene alla crisi grazie alla flessibilità di “distretti” o di “imprese-rete” articolati su aziende di piccole (spesso minuscole) dimensioni. Sono in grado di diventare il grimaldello per lo sviluppo? La piccola dimensione d’impresa è un ostacolo al miglioramento della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) sul tipo di quella realizzata Oltre Reno – il “Rapport Beffa” francese alcuni anni fa lo ha detto a chiare note all’Eliseo – negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economie di scala, sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.

In Italia, in aggiunta, il profilo mediamente anziano della forza lavoro – lo dimostra uno studio recente su 77 paesi – è un freno a quella che gli economisti chiamano la produttività multifattoriale – ossia il combinato disposto della produttività del lavoro e del capitale – anche in quanto coniugata con un numero medio di ore effettivamente lavorate nell’impiego dipendente (1450) almeno il 20% più basso della media Ue e circa il 50% della media Usa, per non parlare dei paesi emergenti asiatici (in Corea del Sud si sfiorano le 2800 ore l’anno).

Ciò implica non solo misure per incoraggiare un aumento della dimensione d’imprese, per portare o riportare i servizi nel manifatturiero, ma anche un “grande patto sociale” per aumentare le ore effettivamente lavorate, al fine che la capacità degli impianti non resti in parte non utilizzata. L’intesa del 4 febbraio, che svuota la “legge Brunetta” non augura un percorso facile.

Il documento ci dà una pacca sulle spalle in materia di strategia dei conti pubblici e contiene indicazioni sulla progressività delle rette universitarie e sulle politiche ambientali che possono aprire stimolanti tavoli di discussione. Sono però davvero queste le priorità da sviscerare in una società che invecchia, le cui imprese non crescono e le cui corporazioni si chiudono a riccio e sembrano avere un forte supporto bipartisan?