Da inizio 2010, Grecia, Irlanda e Portogallo, in successione, hanno palesato soverchianti difficoltà di finanziamento del proprio debito pubblico, vedendosi costrette a chiedere aiuto agli organismi sovra-nazionali europei e mondiali (Ue e Fmi). La richiesta di aiuto, che sottintende sia l’incapacità di gestire il bilancio pubblico che la necessità di “ristrutturare” il proprio debito, tecnicamente equivale alla dichiarazione dello stato di insolvenza: un default. Lo stato di difficoltà non è confinato a questi tre paesi, se ne teme l’estensione per contagio anzitutto verso la Spagna, che si ritiene verrà seguita dall’Italia, storico eroe negativo del rapporto debito/Pil. In realtà, da quando sono iniziati i problemi greci, io prospetto una diversa default list.



Sicuramente il default di un Paese, comportando la cancellazione di alcuni rapporti di credito, può estendersi ad altri paesi: ad esempio, le banche tedesche subiscono sicuramente perdite dall’insolvenza dello Stato greco, così come delle imprese che, direttamente o meno, devono la loro attività dalle commesse del Governo greco, e questo può avere ripercussioni sulla politica creditizia all’interno della Germania – chiamiamolo “contagio tecnico”.



Ma l’oggetto della mia discussione è la possibilità che la sostenibilità del debito sovrano di uno Stato possa risentire dell’insostenibilità dimostrata dal debito di un altro Stato sovrano, considerato che un Governo non compra titoli di altri Governi, e questo può avvenire per un cambiamento di aspettative da parte dei sottoscrittori che, sensibili all’evoluzione di situazioni “analoghe”, cessano di sottoscrivere i titoli di Stato – chiamiamolo “contagio reputazionale”. Tale processo è storicamente documentato da quanto avvenne nel 1998, quando la crisi valutaria russa si è estesa “per contagio” a un Brasile che non aveva alcun significativo legame economico-commerciale con la Russia ma solo dati contabili per certi versi analoghi.



In altre parole, in Europa si è assistito (anche) a un “contagio reputazionale”, in quanto “saltata” la Grecia sulla presunta incapacità di gestire un debito ormai oltre il livello di guardia, sono sorti sospetti sulla per certi versi simile Irlanda; “saltata” l’Irlanda sono sorti simili sospetti sul Portogallo; “saltato” il Portogallo è naturale porsi dubbi sulla in qualche modo analoga Spagna; se “saltasse” la Spagna, la catena di analogie per molti porterebbe all’Italia.

Per provare a dedurre la capacità di gestione di un Paese del suo debito pubblico, si può fare riferimento alle sue proiezioni rispetto a quelle della sua ricchezza, cioè alla dinamica attesa del rapporto debito/Pil che incorpori gli attuali piani di spesa, di tassazione e di eventuale rientro. Se, considerato tutto questo, il debito viene proiettato in decisa crescita, se ne deve dedurre che quello Stato non è in grado di gestirlo e quindi è lanciato verso l’insolvenza; maggiore è il tasso di crescita atteso del debito/Pil, maggiore è la probabilità che il Paese vada in default. Se si entra in questo ordine di idee, si possono avere grandi sorprese.

Un anno fa feci questo esercizio su dati della Danske Bank: nel 2009 l’Italia era il Paese con il debito/Pil maggiore, e le proiezioni del suo debito facevano da riferimento rispetto a quelle degli altri paesi per testare la maggiore o minore sostenibilità dei conti pubblici. Ne veniva fuori che l’Italia sarebbe stata superata dalla Grecia nel 2010, dall’Irlanda nel 2014, dal Portogallo nel 2016, dalla Spagna nel 2018, e dalla Francia nel 2019, una sequenza uguale alla classifica dei rapporti debito/Pil nel 2020. Considerati dieci anni come un orizzonte decente per la valutazione della sostenibilità del debito, ho considerato la sequenza trovata come praticamente una default list. Effettivamente i primi tre default si sono prodotti secondo la sequenza prevista, e il prossimo candidato ufficiale è sempre il quarto della mia lista… ma ciò non vale per il quinto!

In altre parole, affidandomi a proiezioni che incorporino gli esistenti piani di spesa, di tassazione, di recupero e di riforma fiscale, ho visto che la dinamica del debito francese rispetto al Pil è ben superiore a quella italiana, tanto che entro soli dieci anni la Francia si troverà ad avere un debito/Pil superiore; se allora tra i due va scelto quale Paese è meno in grado di gestire la propria posizione finanziaria, questo è la Francia, che dovrebbe pertanto subire la resistenza al finanziamento del debito pubblico da parte dei mercati finanziari prima di quanto possa accadere per l’Italia. Chiaramente, tutto questo a meno di rilevanti riforme fiscali che possano venir realizzate nel frattempo.

Le considerazioni espresse trovano un ulteriore appiglio nel lavoro di Cecchetti, Mohanty e Zampoll (anch’esso da me commentato a suo tempo), che poneva una significativa enfasi sulla sostenibilità del welfare, specialmente in termini pensionistici. Considerando piccoli provvedimenti già decisi, e quindi in assenza di (nuove) importanti riforme pensionistiche, per il 2040 viene previsto un debito/Pil per il Portogallo superiore al 130%, per la Spagna almeno al 180%, per l’Irlanda oltre il 200%, per la Francia attorno al 250%, per la Grecia lanciato verso il 300%, e per l’Italia stabilizzato sul 100% – a fini di ulteriore confronto, la Germania è attesa quasi al 150% e gli Usa al 300% – il che è una spia importante di come l’Italia abbia già da un po’ impostato un effettivo processo di rientro della spesa che la vede in prospettiva come l’unico tra i paesi considerati con una dinamica regressiva e non esplosiva del debito pubblico.

Secondo i tre economisti, le riforme pensionistiche in discussione comunque renderebbero decisamente recessiva la dinamica del debito solo in Germania e Italia (che nel caso tenderebbero a un debito/Pil attorno al 50%) e la stabilizzerebbero solo in Portogallo (un po’ oltre il 100%) rimanendo invece crescente negli altri paesi, in particolare negli Usa e in Francia dove le proiezioni puntano comunque verso il 200%. Il riflesso di questo può essere trovato sia nei dati dei bilanci strutturali che nei calcoli delle strette fiscali necessarie – secondo il Fmi – per il rispetto dei parametri di debito di Maastricht, riportati da Buiter: l’Italia ha uno dei pochi bilanci strutturali positivi, e il suo sacrificio fiscale richiesto è minore di quello francese. È chiaro che è più difficile recuperare una somma maggiore rispetto a una minore.

Tutto questo significa che se la solvibilità di un Paese viene valutata per la sua capacità prospettiva di contenere la dinamica del debito pubblico rispetto alla propria ricchezza, l’Italia presenta una rischiosità minore di altri paesi, Francia in particolare. La questione può non essere del tutto evidente in questo momento, ma più passa il tempo più sarà pressante, specialmente nel 2012 quale annus horribilis delle scadenze dei titoli statali europei, soprattutto se si vorranno collocare titoli a lunga scadenza: come potranno i sottoscrittori non considerare che un titolo a dieci anni francese finirà per concorrere per la propria “copertura” a una quota minore del Pil francese rispetto a quanto varrà per i titoli italiani?

Nel caso andasse in sostanziale default la Spagna entrerebbero inoltre in gioco i problemi dell’esposizione al debito iberico delle banche francesi e la consapevolezza – sostenuta dalla recente esperienza – che lo Stato non lascerà fallire gli istituti probabilmente anche a costo, come nel caso irlandese, di trasferire il problema dal settore bancario ai conti pubblici. Ma pure senza questa considerazione, i conti francesi sono già impostati verso una crescente problematicità.

Il punto è che gli Stati si sono in genere impegnati in promesse di una politica sociale, sanitaria e pensionistica, semplicemente non sostenibili sia per modalità di erogazione che per ragioni demografiche. Questi impegni non hanno una copertura già definita (per questo sono chiamati unfunded liabilities), ma si basano sulla capacità del sistema di creare le relative disponibilità “sul momento” (ad esempio, se i corrispettivi delle pensioni non vengono accantonati nel tempo ma derivano dai contestuali versamenti di chi ancora sta lavorando), e sono una delle ragioni principali del perché le proiezioni del debito di alcuni paesi sono così esplosive.

Una via d’uscita riguarda l’innalzamento dell’età pensionabile e la riduzione dei futuri trattamenti pensionistici, soluzioni che in buona parte l’Italia ha già adottato; nonostante l’entrata in vigore di queste riforme sia diluita nel tempo, anche a causa di contingenti pressioni politiche, e benché queste aprano problematici scenari sociali – una buona ragione per non vantarsene troppo – sono tali provvedimenti già adottati che permettono in prospettiva una certa sostenibilità del debito pubblico italiano.

L’Italia è un po’ un mutuatario che mangia pane e cipolla pur di onorare gli impegni: il mutuo verrà ripagato, sebbene al costo di un inferiore standard di vita. Allo stato attuale, per molti paesi – Francia inclusa – potrebbe non bastare neppure questo, ed è appunto questo problema prospettico che potrà cominciare a pesare se il confine europeo della “periferia insolvente” continuerà a spostarsi sempre più in alto fin oltre il gradino spagnolo.

 

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