Qualcosa si muove. E non stiamo parlando della traballante Grecia, divenuta la pallina di un’immaginaria partita di ping pong tra governi europei e Ue, e neppure dell’Irlanda, dove il nuovo governo – lo stesso che prometteva di far pagare i costi della crisi ai mercati e non alla gente – come primo atto ha deciso di tassare le pensioni private dei cittadini, ufficialmente per creare occupazione.
Parliamo degli Stati Uniti, Paese che fra quattro giorni toccherà il tetto legale del debito fissato a 14,3 trilioni di dollari e che vede la politica impantanata sul da farsi: alzare il ceiling o andare avanti così utilizzando special-purpose vehicles per fare cassa e pagare interessi e cedole sul debito emesso? Ma cosa si è mosso? Goldman Sachs, principale collocatore di T-bills, ha aumentato enormemente le sue esposizioni al debito governativo e a quello di agenzie governative come Fannie Mae e Freddie Mac nel primo trimestre di quest’anno, di fatto ponendosi in netta controtendenza con la maggioranza dei traders di bond, tutti short sul debito del Tesoro Usa.
Alla fine di marzo, Goldman Sachs deteneva poco più di 100 miliardi di debito governativo e di agenzie federali, stando ai dati resi noti dalla Securities and Exchange Commission. Un aumento di circa 15 miliardi di dollari nel corso del quarto trimestre del 2010 e del 21% all’interno delle sue holdings nello stesso periodo. Certo, per un’azienda come Goldman un extra di 15 miliardi è poca cosa, ma costruire un portafoglio di debito governativo Usa mentre gli altri investitori, ad esempio il gigante obbligazionario Pimco, stanno riducendo drasticamente la loro esposizione, significa che la banca d’affari newyorchese sta nuotando controcorrente.
Goldman sa qualcosa? Poco ma sicuro. Difficile sapere se questo qualcosa sia la certezza di un accordo parlamentare sull’innalzamento del tetto di debito oppure sulla certezza di un rafforzamento del dollaro a fonte di una situazione europea in rapido deterioramento che trasformerà di nuovo i T-bills nel bene rifugio per antonomasia, insieme all’oro. Succedono cose strane in queste ore, d’altronde. Avendo preso atto che lo sperato “effetto Bin Laden” non si è concretizzato sul mercato delle commodities e su quello azionario, i regolatori sono passati all’attacco quasi in contemporanea attraverso l’unica, fondamentale leva in loro possesso: l’aumento dei margini sui contratti futures, mossa che ha garantito la fuga dei piccoli investitori e una discesa dei prezzi.
Detto fatto, oro giù, argento giù e petrolio giù dai massimi. Ma si sa che i magheggi e le scorciatoie non sono misure strutturali: tamponano, bloccano il trend, ma poi ci sono i fondamentali, primo dei quali domanda/offerta. E la bolletta energetica degli Usa, con il petrolio a questi livelli, va ad aggravare la già poco rosea situazione del deficit commerciale Usa, il quale ieri ha registrato un inaspettato ampliamento a causa di un contemporaneo aumento dell’export ma anche dell’import, salito a marzo del 5% anche a causa dell’aumento del prezzo del petrolio. Il deficit è salito a 48,2 miliardi, l’aumento maggiore dal giugno 2010 e ben sopra le previsioni di 45,4 miliardi fatte a febbraio.
Un risultato che si tramuta in un’ulteriore limatura delle stime di crescita per l’economia Usa, ma anche nella constatazione del rafforzamento della domanda Usa e globale, visto che il commercio è tornato a livelli pre-crisi. Forse anche questi dati macro hanno influenzato Goldman Sachs e la sua strategia, non certo basata su un afflato patriottico, ma forse figlia di una volontà emulativa: ovvero, se chi non sbaglia quasi mai è lungo sul debito Usa, allora è meglio crederci. Ma c’è anche dell’altro, passato completamente sotto silenzio.
Come raccontato da PressTV, il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha pesantemente attaccato la politica economica Usa, dicendo chiaramente che «tutta la valuta cartacea creata dal governo Usa sta facendo pagare un pesante pedaggio all’economia globale». Come, come? L’uomo che solitamente parla solo di infedeli, grande Satana, distruzione di Israele, si mette a parlare come un’economista anti-espansivo? Qui c’è qualcosa sotto. Anche perché il presidente iraniano non ha parlato nel salotto di casa sua o alla tv di Stato, ma alla platea della quarta conferenza dell’Onu per le nazioni meno sviluppate a Instanbul lunedì scorso. Per Ahmadinejad, gli Usa hanno iniettato nell’economia globale sotto forma di dollari senza valore denaro per circa 32 trilioni di dollari, «atto che ha giustificato l’aumento a 1,6 trilioni di dollari del deficit di budget Usa nell’anno fiscale in corso».
Per il presidente iraniano, il fatto che «l’America stia toccando il tetto di debito a 14,3 trilioni di dollari a fronte di un Pil di circa 14, spiega il crollo del benessere nazionale di molti paesi e la crescita di povertà e sottosviluppo attraverso il globo. Molte organizzazioni economiche internazionali difendono la situazione esistente o gli interessi i certi Stati». E ancora, per Ahmadinejad «l’era del colonialismo è arrivata alla fine e la gestione degli argomenti mondiali dovrebbe essere riformata» e ha proposto la creazione di una commissione indipendente per accertare l’entità dei danni inflitti durante il colonialismo alle nazioni oppresse e per obbligare le ex potenze coloniali a pagare indennità.
Sarà una nuova Weimar a mandare gli Usa in default? Mah. In compenso avete capito bene, quelle parole sono state pronunciate da Ahmadinejad, novello Gheddafi panafricano ed economista prestato al fondamentalismo. Quale era il messaggio sottotraccia inviato agli Usa? Di certo c’è che un paio di settimane fa caccia israeliani hanno compiuto ricognizioni sul confine iraniano e in molti hanno temuto il peggio. Poi la pantomima pakistana dell’uccisione di Osama Bin Laden ha fatto pensare alla scelta da parte Usa dell’utilizzo di soft power per uscire dall’impasse economica. Gli Usa hanno forse qualcosa da farsi perdonare o, peggio, da nascondere?
Io so soltanto un paio di cose. Primo, l’Iran ha parlato lo stesso linguaggio, fatto salvo l’accenno al colonialismo, della Cina, primo detentore di bond Usa e da tempo impegnata in una politica di riduzione dell’esposizione e di diversificazione delle riserve monetarie in dollari. La Cina, poi, sta facendo letteralmente incetta sui mercati di oro e argento fisico, politica seguita non solo dal Messico e da gran parte dei paesi asiatici, ma anche dallo stesso Iran e dalla Libia di Gheddafi.
Secondo, so che la Federal Reserve ha fornito 26 miliardi di dollari di credito a un intermediario arabo controllato dalla Central Bank of Libya, la Arab Banking Corp: nel totale della cifra sono compresi 3,2 miliardi di dollari di prestito che la Fed è stata obbligata a rendere noti su pressione del senatore del Vermont Bernie Sanders (in totale sono stati 46 i prestiti d’emergenza a basso tasso d’interesse, lo 0,25%, alla Arab Banking Corp.), il quale ha anche chiesto lumi sul perché la banca libica e due sue filiali di New York siano state stranamente esentate dalle sanzioni decise dal governo statunitense per mettere pressione sul regime di Gheddafi.
Già, perché? Vuoi vedere che l’oro libico sta lì dentro e non in un caveau fisico al confine con il Sudan o trafugato all’estero? E poi, non è estremamente sgradevole il fatto che i prestiti della Fed, a un tasso risibile, facciano affidamento come collaterale a securities del Tesoro Usa? In altre parole, nello stesso tempo in cui la Arab Bank Corp. prendeva a prestito soldi a interessi zero da un braccio del governo Usa, la Fed, lo stesso istituto prestava soldi a un tasso molto più alto a un altro braccio del governo Usa, il Dipartimento del Tesoro, attraverso il collaterale in T-bills.
Perché questo trattamento di favore alla banca libica e questa esenzione dalle sanzioni? Convenite con me che ci sono sufficienti elementi per sostenere che qualcosa si sta muovendo negli Usa? E, si sa, non sempre questi movimenti sono prodromici a qualcosa di positivo.