I rappresentanti di Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale sono giunti ieri ad Atene per discutere con il governo locale della situazione dei conti pubblici. In vista ci sono nuovi aiuti alla Grecia, dopo quelli stanziati un anno fa. Si parla di circa 60 miliardi di euro. Ma c’è anche chi ipotizza sia da preferire una ristrutturazione del debito ellenico oppure l’uscita della Grecia dall’euro.
«La situazione è molto complicata», ci spiega Mario Deaglio, Docente di Economia internazionale all’Università di Torino: «Gli aiuti alla Grecia verrebbero usati per pagare regolarmente il debito rispettando le scadenze. Questo vorrebbe dire che Atene non sarebbe insolvente, i suoi titoli non perderebbero valore e le banche tedesche (e non solo) potranno scrivere nei loro bilanci che non subiranno svalutazioni e che quindi non avranno perdite».
Cosa accadrebbe invece nel caso di una ristrutturazione del debito?
Se ci fosse un rinvio della scadenza o un rendimento più basso sul debito, i possessori di titoli (tra cui le banche tedesche) subiranno una perdita. Se questa dovesse essere di 50-70 miliardi di euro (l’entità degli aiuti di cui si parla) la situazione per gli istituti di credito sarebbe critica, si troverebbero in posizione pre-fallimentare. Questo perché tutte le banche intermediano grandissime quantità di debito, ma il loro capitale è decisamente minore. E quando ci sono perdite si intacca il capitale. La ristrutturazione, inoltre, porterebbe con sé anche il cosiddetto “effetto domino”.
Cioè?
Se la ristrutturazione venisse concessa alla Grecia, perché non farla anche in Irlanda e Portogallo? E poi perché non in Spagna? Il problema è che se si arriva alla Spagna salta tutto, perché è un Paese più grande degli altri tre e ci sarebbero conseguenze anche per le banche italiane, dato che sono molto esposte verso Madrid. La ristrutturazione non si può fare e non se ne può nemmeno parlare. Il solo annuncio renderebbe di fatto il debito greco svalutato, con tutte le conseguenze per le banche. Ora i rappresentanti di Ue, Bce e Fmi sono ad Atene per studiare riforme e un piano di rientro triennale in cambio degli aiuti, in modo da far sì che non ce ne sia bisogno di ulteriori in futuro.
Bisogna dunque “arrendersi” alla strada degli aiuti?
Da parte della comunità finanziaria internazionale, soprattutto europea, c’è un forte interesse a che i greci rimborsino i loro debiti, meglio ancora se attraverso gli aiuti. Questi, però, vengono pagati dai governi, che stanno anche cercando di limitare le spese. Come nel resto della crisi, vediamo una sorta di “ricatto morale” delle banche, che dicono: se non agite falliamo e si determina il caos.
C’è quindi una sorta di “conflitto” tra gli interessi dei contribuenti e quelli delle banche?
Ha centrato il problema. I contribuenti sono anche elettori, cui i governi sono molto attenti, dato che nessun esecutivo gode di ottima salute e popolarità in Europa. In Germania la stessa Merkel sta giocando su due tavoli: da un lato cerca di rassicurare gli elettori, dicendo che sarà intransigente con la Grecia; dall’altro fa capire alle sue banche che gli aiuti saranno comunque stanziati. Senza dimenticare che i cittadini greci stanno protestando (ieri c’è stato lo sciopero generale in Grecia, ndr) contro le annunciate misure di austerità, dicendo: perché dobbiamo pagare proprio noi?
Un piano di rientro in cambio degli aiuti è però del tutto ragionevole.
L’austerità che è stata proposta ai greci è inaccettabile. Non si può chiedere a un Paese, per quanto “truffatore” sui conti (visti i precedenti) e indebitato, di ridurre il proprio livello di vita in maniera così sensibile (si parla del 10-15%) per aggiustare i conti in tre anni. Il debito avrebbe bisogno, per essere ragionevolmente assestato, di 9-10 anni. Ma le solite banche dicono che si tratterebbe di un periodo troppo lungo di incertezza sul rimborso che farebbe deprezzare i titoli di stato greco.
Nei giorni scorsi si era anche diffusa la voce che la Grecia potesse uscire dall’euro. Cosa ne pensa?
La Grecia aveva già “barato” sui conti ai tempi dell’adesione all’euro. Il direttore dell’Eurostat, l’istituto che doveva certificare i requisiti di adesione, si era persino dimesso in segno di protesta, ma la Grecia è entrata nell’euro perché c’era un interesse della Germania, dato che le banche tedesche investivano già sul debito di Atene. Ora questi rumors si sono diffusi non a caso in Germania, perché forse qualcuno pensa che effettivamente questa strada, per quanto costosa, risolverebbe il problema alla radice. Tuttavia nel caso si decidesse di seguirla ci sarebbero non poche difficoltà.
Perché?
C’è prima di tutto un aspetto giuridico importante: il trattato istitutivo dell’euro dice che l’adesione è irrevocabile. Occorrerebbe quindi una modifica per stabilire le modalità di uscita di un Paese dall’euro. Poi ci sono gli aspetti pratici: bisogna fare una nuova dracma, stabilire un tasso di cambio con l’euro, limitare la circolazione dei capitali, dato che i greci cercherebbero di portare i loro risparmi all’estero. Tutte operazioni possibili, ma che richiederebbero almeno due anni per essere realizzate completamente.
Tempo fa si diceva che poteva essere la stessa Germania a voler lasciare l’euro.
Sarebbe complicatissimo da fare, ma potrebbe funzionare. La Germania potrebbe uscire dall’euro, prendere qualche provvedimento straordinario rispetto alle sue banche, spalmando le perdite che deriverebbero da questa operazione su 10-15 anni così da renderle più sopportabili. Berlino potrebbe poi creare un “euro 2” insieme ad altri pochi paesi virtuosi. Oppure si potrebbero anche creare più euro: sarebbe un po’ come resuscitare il vecchio Sistema monetario europeo, in cui c’erano monete nazionali che fluttuavano entro limiti di cambio stabiliti. Ci sarebbe un euro centrale tedesco e poi gli altri che variano entro una percentuale prestabilita rispetto a esso.
L’euro, dunque, dopo un anno è ancora in fibrillazione. La situazione è meno grave di allora?
La situazione di oggi era in potenza già un anno fa. Non è stato fatto nulla di risolutivo, quindi la situazione ha avuto la sua normale evoluzione peggiorando Ci stiamo avviando verso una prospettiva per cui si vuole cercare di “passare la nottata”, dando gli aiuti ai paesi in difficoltà, sperando che le opinioni pubbliche di questi paesi finiscano per accettare i sacrifici imposti, e che magari un po’ di crescita aiuti la situazione.
Bisogna rimproverarsi qualcosa rispetto alla scelta di far nascere l’euro?
Sarebbe stato un po’ difficile mantenere in piedi l’Europa senza l’euro. Ma ora è un meccanismo che sta diventando una trappola per tutti, tedeschi compresi. Al fondo c’è il fatto che abbiamo fatto la moneta sperando che essa si tirasse dietro tutto il resto: un esperimento inedito. L’Europa non ha però fatto l’unione politica, indispensabile quando si ha una moneta comune. Nessun governo ha voluto cedere di un millimetro sulla propria sovranità. E una moneta unica in presenza di governi diversi diventa un problema.
Vede possibilità di miglioramento di questa situazione?
Internamente bisognerebbe cominciare almeno a muoversi verso la creazione un’imposta europea, da versare a un governo europeo, in cambio di servizi quali la difesa, l’immigrazione e la politica estera: un percorso non facile e lungo. Nel resto del mondo, invece, stanno succedendo molte cose e qualcuna potrebbe volgere a nostro favore. Per esempio, la Cina, che ha riserve in dollari per 3.000 miliardi, potrebbe intervenire per aiutare la Grecia. Per Pechino si tratterebbe di una cifra ridicola, ma vorrebbe qualcosa in cambio: dalle infrastrutture portuali greche fino alle tecnologie militari europee, che finora gli abbiamo negato.
Resta il fatto che l’euro è a quota 1,40 contro il dollaro, mentre un anno fa era arrivato intorno a 1,20.
Tra euro e dollaro c’è una nobile gara per la debolezza. A parte i warning delle agenzie di rating sul debito americano, il Parlamento ha difficoltà ad approvare l’innalzamento del tetto del debito stesso. Il bilancio degli Usa è più o meno come quello della Grecia: deficit intorno al 10% del Pil e debito all’80-90% pronto a salire rapidamente. La differenza è che gli Usa hanno i marines, un potere militare e un’egemonia per cui uno i soldi glieli dà, mentre alla Grecia no, perché non conta nulla. Comunque, se andranno in crisi prima gli Usa, l’euro si ricompatterà.
Le politiche economiche messe in campo dagli Usa contro la crisi stanno funzionando?
Con il quantitative easing si stanno iniettando nel sistema 75 miliardi di dollari (più o meno la cifra che si vuol dare alla Grecia) al mese. Attraverso appositi enti, questi fondi vengono per la maggior parte usati per acquistare titoli tossici a un prezzo molto più alto di quello di mercato, sollevando i bilanci delle banche. Cosa che dovrebbe permettere di ristabilire i finanziamenti alle imprese, che dovrebbero tornare ad assumere. Ciò non sta avvenendo, perché ci sono troppi disoccupati (13-14 milioni) per un Paese come l’America.
Un euro così forte non può essere un problema per economie orientate all’export come quelle di Germania e Italia?
Non così tanto come si pensa. L’Italia esporta molto nel lusso, e quindi gli acquirenti non sono molto condizionati da un aumento dei prezzi, anche del 10-15%. La Germania, invece, esporta prodotti meccanici ed elettronici a tecnologia avanzata, e chi vuole fare investimenti in certi rami li deve comprare per forza. A fronte di questo freno sulle esportazioni, c’è comunque il vantaggio di una minor pressione sui prezzi: l’euro forte ci difende dall’inflazione importata.
(Lorenzo Torrisi)