A leggere la stampa anglosassone emerge la sensazione che, vista da oltre Oceano, la crisi della Grecia rappresenti una sorta di riedizione, sul vecchio Continente, del dramma dei subprime. In realtà, il paragone non tiene. Non soltanto perché tra il Partenone e una schiera di immobili dell’Ohio impacchettati in qualche prodotto sintetico corre una certa differenza. Ma perché la partita dei subprime, che ha messo in ginocchio il mercato immobiliare più importante del pianeta, ha messo in moto una leva da 14.000 miliardi di dollari, tanto vale circa il patrimonio in mattoni degli States. Il debito della Grecia, al contrario, non supera i 400 miliardi: cifra ragguardevole, per carità, ma non superiore al 3-4% del Prodotto interno lordo dell’eurozona; molto meno, tanto per fare un altro paragone, del peso della California rispetto al bilancio federale. Eppure nessuno scommette sulla scomparsa del dollaro, pur così svalutato e svilito da giustificar la folle corsa all’argento.
Come si giustifica, di fronte a queste cifre, l’allarme che, per il secondo maggio consecutivo, attraversa l’area dell’euro? In fin dei conti, agli attuali rendimenti di mercato, la Bce potrebbe riacquistare con un forte sconto tutto il debito greco in circolazione per poi avviare una trattativa “privata”, al riparo dalle tensioni sul mercato, sull’eventuale ristrutturazione degli hellenic bond. La spiegazione non può che essere politica.
La moneta unica, che ha potuto contare su un decennio di bonaccia sui mercati valutari, oggi patisce, sotto i cieli della tempesta, i limiti di una costruzione artificiale, priva com’è di alcuni basilari elementi comuni, a partire dal fisco. All’origine della crisi greca, infatti, c’è un sistema fiscale quasi impalpabile, al cui confronto l’Italia presenta una serietà quasi scandinava: una fetta rilevante dell’economia poggia sul “nero” che, a differenza di quanto avviene in Italia, trova un porto solido e sicuro nelle banche elleniche, in cui i conti milionari sono in numero assai superiore a quello dei contribuenti che denunciano al fisco cifre simili. Non è facile far digerire a un contribuente tedesco, costretto a fare il suo dovere fiscale fino all’ultimo centesimo, di prestare i suoi soldi per puntellare una situazione del genere.
Si spiegano così gli equilibrismi della classe dirigente tedesca, il vero elemento di incertezza dell’eurozona. A marzo, una volta varato l’European financial stability facility e avviato l’iter per il fondo di stabilità, sembrava che il peggio per l’Europa fosse passato, anche grazie alla decisione di consentire alla Bce di intervenire, qualora fosse stato necessario, anche in sede di collocamento dei titoli sul mercato primario. Poi, complice la sonora sconfitta elettorale di frau Merkel e dei suoi alleati liberali (oggi saliti sul carro euroscettico), si è tornati indietro.
Certo, a innervosire i tedeschi sono stati i ritardi dell’esecutivo di Atene sul fronte del risanamento dei conti: il rapporto deficit/Pil resta largamente al di sopra del 10%, sul fronte delle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni si va per le lunghe, mentre prendono corpo iniziative un po’ folcloristiche, tipo il collocamento presso la diaspora degli emigrati di una speciale emissione del debito che, viste le dimensioni della fuga dei capitali, ricorda da vicino la logica degli scudi di tremontiana memoria.
Il risultato è che, come capita un paio di volte l’anno, l’edificio dell’eurozona vacilla: per la speculazione è un gioco da ragazzi muovere a piacimento la leva dei cds, i credit default swaps, che restano meno vigilati e regolati di una mandria di cavalli bradi nella prateria. Un danno che, solo in termini di premio al rischio per le banche europee (italiane comprese), si valuta nell’ordine di centinaia di milioni all’anno. Una beffa, se si pensa che si ha motivo di sospettare che larga parte di quei cds sono stati emessi da banche greche che li hanno poi spalmati in giro per i mercati grazie all’attiva collaborazione dei colossi Usa che agitano lo spauracchio della crisi dell’euro.
In realtà, il rischio è molto relativo. L’euro, infatti, può contare su un’arma formidabile: non esiste, per ora, una via d’uscita dalla moneta unica. Anzi, l’unica cosa certa è che l’uscita dall’euro avrebbe effetti devastanti per la società greca, che dovrebbe adattarsi a livelli di reddito dimezzati rispetto al presente. Ma innescherebbe un circuito perverso insostenibile per gli altri paesi della Comunità, con effetti ben peggiori del tracollo di Lehman Brothers.
Di qui la sensazione che anche stavolta si ripeterà una trama già nota: sotto la pressione di Washington (che mal sopporta la rivalutazione del dollaro sull’euro) i governi europei faranno un altro piccolo, ma comunque importante passo sulla strada dell’unità del vecchio Continente, magari accompagnato da qualche garanzia in più dei Paesi della periferia. Forse un fondo per le privatizzazioni, forse un’ipoteca sulle entrate fiscali future.
Resta la sensazione che la comunità dell’euro non riesca a uscire da un vicolo cieco. Complice il “nanismo” politico, che è emerso in maniera clamorosa nella crisi libica, gestita in ordine sparso dai singoli governi piuttosto che dall’Ue. O in materia di energia: ci sono Paesi che rinunciano, in pratica, al nucleare come l’Italia, altri, come la Francia, che hanno rinunciato allo “shale gas”, ovvero all’estrazione del gas non convenzionale che sta rivoluzionando il quadro energetico degli Usa e che, al contrario, altri paesi europei (vedi la Polonia) intendono sviluppare. E così, in assenza di una reazione convinta, si rischia di cadere in una certa assuefazione ai richiami degli organismi internazionali, compreso il Fmi.
L’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale, del resto, riecheggia la solita diagnosi: rischio contagio del debito sovrano; invito ad accelerare il riequilibrio del debito pubblico; i pericoli insiti in una crescita modesta, soprattutto per l’Italia. Insomma, le solite cose dietro cui si nascondono pericoli nuovi, ancor più inquietanti. A tenere in piedi il Bel Paese, si sa, è stata la ricchezza delle famiglie. Ma attenzione, nota Daniel Gros, la capacità di accumulare nuovo risparmio è stata messa a dura prova dalla frenata dell’economia. Se non si torna a investire, tempo dieci anni, la Penisola finirà davvero nell’inferno dei debiti.