Oggi l’Eurogruppo (salvo improbabilissimi colpi di scena) investirà Mario Draghi come futuro presidente della Bce. Ma in giro non c’è molta aria di festa: neppure in Italia, a parte di complimenti di rito. Il Governatore della Banca d’Italia – fortemente sostenuto da Wall Street e salutato come “non italiano” dal Financial Times – approda a Francoforte mentre l’euro è fortissimo, ma l’Europa è ai minimi storici come “Unione”.
Draghi rimonta e vince nel match con l’ex presidente della Bundesbank, il rigorista e antimercatista Axel Weber, perché quest’ultimo ha dato forfait preventivo: sostenendo, neppure troppo velatamente, di essere stato intimidito e minacciato (dalle lobby bancarie?) e abbandonato dal suo cancelliere Angela Merkel. E ciò – ai super-addetti ai lavori – ha rammentato un po’ le misteriose dimissioni di Rodrigo Rato, il direttore generale (spagnolo) del Fondo monetario internazionale fino al maggio 2007. Rato dovette lasciare in fretta e furia, inseguito da pettegolezzi sulla sua vita privata, meno di cento giorni prima che il crack di Northern Rock certificasse il deflagrare della grande crisi bancaria internazionale.
Rato è stato “bruciato” perché non aveva gli stessi punti di vista dell’allora segretario al Tesoro Usa, Hank Paulson, l’ex presidente della Goldman Sachs, ultima carta della presidenza Bush contro la metastasi avanzata della finanza derivata? La Goldman – la banca d’affari che vent’anni ebbe la parte del leone nelle privatizzazioni italiane e già un decennio fa “abbellì” i bilanci pubblici della Grecia via derivati – è stata notoriamente il datore di lavoro di Draghi fra la sua esperienza di direttore generale del Tesoro e quella di Governatore. «Consigliato nel 2005 al premier Berlusconi e al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dall’allora presidente di Capitalia, Cesare Geronzi», ha ricordato sabato su Milano Finanza il direttore-editore Paolo Panerai. .
Il successore di Rato all’Fmi – il francese Dominique Strauss-Khan – è stato clamorosamente arrestato ieri con l’accusa di violenza sessuale. Non è la prima volta che l’ex ministro socialista francese è al centro di gossip piccanti e scandalistici, ma stava pur sempre lasciando Washington per rientrare in Francia e candidarsi alla presidenza della Repubblica contro l’attuale inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy. E a Parigi le “macchine del fango” – e non certo gestite artigianalmente – sono ben collaudate dall’avvento della Terza Repubblica, cioè dalla fine dell’800. Comunque, è stato il presidente francese il vero “grande elettore” di Draghi, il frenatore della legittima voglia tedesca di prendersi finalmente ciò che riteneva proprio, cioè il timone dell’euro.
Ed è stato Sarkozy a negoziare un passaggio morbido, tutto latino, tra il “suo” Jean Claude Trichet e il governatore italiano, che probabilmente cederà al banchiere francese la guida del Financial Stability Board. Ed è stato ancora l’ex avvocato Sarkozy a rimettere in gioco il suo ex cliente italiano Silvio Berlusconi, isolato nel contesto internazionale dal gossip sessual-giudiziario italiano. In cambio Parigi ha ottenuto un inatteso via libera del cavaliere all’Opa di Lactalis su Parmalat, ma non senza provocare la dura reazione da parte del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, fautore di una cordata nazionale.
Sempre in termini di coincidenze oggettive, l’iniziativa della Procura di Milano -appoggiata dalle strutture investigative della Guardia di Finanza, dipendenti dall’Economia -segna un’escalation con pochi precedenti: sono finiti sotto inchiesta per aggiotaggio e insider trading un alto dirigente di Intesa Sanpaolo (stretto collaboratore del Ceo Corrado Passera e del direttore generale Gaetano Micciché) e la moglie, regista italiana dell’Opa Lactalis per conto di Société Générale. Il pm Eugenio Fusco è stretto collaboratore dell’“aggiunto” Francesco Greco, super-procuratore per i reati finanziari fin dai tempi delle tangenti Enimont, del crack Parmalat, delle scalate ad Antonveneta, Bnl e Rcs nel 2005. E Greco è un frequentatore abituale dei riservati simposi dell’Aspen Italia, ultimamente ospitati anche all’interno della sede milanese di Mediobanca. Il vero “mohicano”, infine, apparentemente intenzionato a resistere nella trincea Parmalat è l’amministratore delegato Enrico Bondi, fedelissimo di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi.
Nel frattempo Tremonti ha quasi inaugurato la “sua” banca del Sud (innestata nel bancoPosta e finanziata con nuovi bond fiscalmente agevolati) e il “suo” presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha esordito in Piazza Affari con un discorso squisitamente “tremontiano”: bando alla finanza strutturata globalista e allargamento di ogni canale finanziario utile a intermediare il risparmio delle famiglie italiane verso le piccole e medie imprese italiane.
È in questo clima che Draghi sta preparando le sue ultime Considerazioni finali del 31 maggio: un primo “manifesto” come “incoming chairman” della Bce, ma in fondo anche come “anti-ministro dell’Economia” italiano. Perché è questo l’utile vero che Berlusconi cercherà di massimizzare: la possibilità di utilizzare una sorta di “secondo forno” a Francoforte, se quello principale – in via XX Settembre a Roma – risulterà poco adatto a cuocere una politica economica gradita al suo premier. E Draghi “l’americano” – nonostante un sapiente mix di toni nell’ultimo anno per smussare le diffidenze tedesche – non ha mai fatto mistero di preferire la “crescita” (berlusconiana) al “rigore” (tremontiano).
A Roma, intanto, il toto-Governatore infuria già, ma la partita è chiara: in vantaggio appare il ticket tremontiano doc (Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro come Governatore; Anna Maria Tarantola, lombarda, economista alla cattolica, grande esperta di vigilanza bancaria; promossa alla direzione generale). L’alternativa prevede la promozione interna al vertice di Via Nazionale del direttore generale Fabrizio Saccomanni – ex delfino di Lamberto Dini – equilibrato dal rientro alla direzione generale del tremontiano Lorenzo Bini Smaghi, finora nell’esecutivo della stessa Bce.
Ma la soluzione “romana” sembra soffrire – di questi tempi – della generale debolezza dell’ala “capitolina” , post-andreottiana, del grande arcipelago berlusconiano: quella capitanata da Gianni Letta. Lui pure, peraltro, advisor internazionale della Goldman Sachs.