Prima che gli agenti di New York City arrestassero per stupro Dominique Strauss-Kahn sul jumbo che lo riportava a Parigi, il Fondo monetario internazionale stava trattando con la Grecia un nuovo pacchetto di prestiti per 60 miliardi di euro. Un’ennesima boccata d’ossigeno che però finisce per aumentare l’indebitamento. Fino a quando si potrà andare avanti così? Sarà in grado Atene di far sempre fronte alle scadenze?



Gli ultimi dati diffusi da Bruxelles mostrano un’Europa che viaggia a velocità multiple: corre il nord, trainato dalla Germania (con la Svezia al primo posto a un tasso di crescita addirittura del 7%, seguita da Danimarca, Olanda, Polonia, e i paesi dell’est che sono ormai saldamente integrati nell’area tedesca). Ristagnano Italia, Spagna e Gran Bretagna. La Francia resta sospesa tra il traino renano e la zavorra mediterranea. Sono in piena recessione Irlanda, Portogallo e Grecia, che scende del 4,8% nel primo trimestre rispetto a un anno prima. I piccoli paesi periferici, dunque, non ce la fanno. E gli aiuti sono solo pannicelli caldi. L’Eurogruppo oggi a Lussemburgo non potrà che prenderne atto, anche se nessuno ha la forza e la volontà di trarne le conseguenze.



L’ultima tragedia greca si consuma, così, tra allarmi e impotenza. Se si volesse riportare il debito al 60% del Pil, ci vorrebbero avanzi primari del bilancio pubblico pari al 6% l’anno per i prossimi 60 anni. È chiaro che si tratta di una ipocrita finzione. Tutti lo sanno. E nessuno vuole più i bond greci anche se i tassi reali salgono. Gli operatori si attendono ormai qualcosa di nuovo e qualcosa di più, se non proprio qualcosa di definitivo.

C’è un programma di tagli e privatizzazioni che sta suscitando le proteste della popolazione; un piano di rientro a base di rigore che rischia di provocare rigor mortis. Si parla di vendere beni pubblici per 50 miliardi di euro: bella impresa per un Paese che produce ogni anno 230 miliardi di euro. Del resto, privatizzare è bene, ma se fatto con i tempi giusti e con una strategia industriale. Altrimenti, se si vende solo per far cassa, il rischio è impoverire la base produttiva del Paese. Come è avvenuto in Italia.



E allora? Ormai i più pensano che si arrivi a una sorta di procedura fallimentare, un’amministrazione controllata applicata al bilancio dello stato. I paesi più solidi dell’Eurozona potrebbero comprare direttamente i titoli greci (ipotesi che non troverebbe il consenso politico dei parlamenti). In caso contrario si può concordare una moratoria degli interessi accompagnata da uno swap tra vecchio e nuovo debito. Ma servirebbe solo a prender tempo. Resta il problema di come la Grecia potrà finanziare la sua spesa pubblica, non potendo più attingere al mercato dei capitali. Con le sole tasse? Non scherziamo.

La via peggiore è un fallimento tipo Argentina, che ha provocato danni pesanti ai risparmiatori e non ha risanato il Paese. A differenza del Brasile, che ha subito svalutato il cruzeiro, il governo di Buenos Aires ha insistito nel difendere la parità con il dollaro e s’è avvitato in una spirale perversa. Alcuni, come Barry Eichengreen, dell’università di California, propongono di usare per la Grecia il modello del piano Brady (l’ex segretario al Tesoro di Bush padre).

Il meccanismo, applicato in Messico nel 1990, prevede l’emissione di nuovi titoli a tassi più convenienti, garantiti dagli Stati Uniti. In concreto, il Paese li acquista con fondi emessi dal Fmi e li deposita in un fondo speciale. Le nuove risorse servono per rimborsare i vecchi titoli e ridurre il servizio del debito. I Brady bond si sono rivelati un successo e sono stati sempre rimborsati. Il rifinanziamento va accoppiato, è naturale, da misure di risanamento finanziario e rigore economico. In Grecia, però, il governo del socialista Papandreou non riesce a far ingoiare l’amara medicina.

Anche il piano Brady si scontra con lo scoglio dei cambi. Senza la svalutazione della moneta, attraverso la quale dare un calcio d’inizio alle esportazioni e alla crescita (magari lasciando correre un po’ di inflazione, che in questi casi serve da olio lubrificante), non è mai stato possibile ripartire. L’ortodossia che regna alla Banca centrale europea, imposta dalla Germania per convinzioni culturali e interessi politico-economici, funziona nei tempi buoni. Quando arriva la bufera, bisogna ammainare le vele e aprire l’ombrello.

Questo ragionamento porta dritto dritto a una conclusione: per quanti tagli e privatizzazioni si possano mettere in cantiere, dalla crisi non si esce senza sviluppo. Se la Grecia non torna a crescere non potrà mai ridurre il debito, ma con una politica fiscale draconiana e una moneta inchiodata nell’euro, non riuscirà crescere. Ecco il circolo vizioso. Per spezzarlo, la deduzione più logica sarebbe il ritorno alla dracma o magari l’adozione di un euro2, svalutato di una certa quota (nel caso greco dovrebbe essere consistente per avere efficacia, almeno il 25-30%, anche tenendo conto della diversa elasticità dell’export rispetto a paesi con maggiore solidità industriale come l’Italia).

È possibile? Gli esperti dicono che non ci sono impedimenti tecnici. Se l’operazione è concordata, temporanea, gestita dalla Bce insieme al Fmi, accompagnata dalle misure di risanamento già avviate, si può fare. Una volta ridotto il debito e riportato in attivo il bilancio pubblico al netto degli interessi, Atene potrebbe ridiscutere il rientro; nel frattempo seguirà una politica monetaria del tutto allineata con quella di Francoforte.

Il vincolo è politico, sottolinea Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del direttorio Bce: sarebbe come alzare bandiera bianca, dimostrare che l’euro così com’è non regge. Le sue preoccupazioni sono fondate. E tuttavia la crisi del 2008-2010 è stata davvero grande. Non è retorica dire che nulla sarà come prima, anche se c’è una tendenza generale a far finta di niente, nelle banche come nei governi. La stessa Eurolandia è cambiata, ha vinto la Germania che trascina con sé il nord e guarda più al mondo che alla stessa Europa. Il suo spazio vitale in economia è l’Asia, non tra il Reno e la Vistola.

In che modo l’euro riesce a compensare questi nuovi squilibri? Non spetta alla moneta, dicono gli ortodossi, bensì alla politica economica (fiscale, industriale, del lavoro). È vero. Ma si dà il fatto che abbiamo una politica monetaria unica e centralizzate e politiche fiscali divise su basi nazionali. Abbiamo una moneta senza sovrano. Ecco la contraddizione di fondo, l’equivoco sul quale è nato l’euro. Recessione, crack bancari e salvataggi pubblici hanno chiamato il grande bluff, come lo giudicavano gli economisti americani dal liberista Milton Friedman al keynesiano Franco Modigliani. Adesso bisogna muoversi. O si va avanti nel processo unitario (e allora il prossimo passo è centralizzare anche la politica fiscale, creare un bilancio europeo e chi ci sta ci sta) o si creano valvole di sfogo, con una gestione flessibile.

Gli eurocrati e i sacerdoti del tempio di Francoforte non difettano di fantasia. Forse manca loro un po’ di anticonformismo intellettuale e di audacia politica. La Grecia offre a tutti una grande occasione.

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