La ripresa dell’economia europea continua ed è leggermente migliore delle attese, anche se ci sono nuovi rischi all’orizzonte, a partire dall’inflazione legata all’aumento dei prezzi delle materie prime. Secondo le previsioni di primavera pubblicate venerdì 13 maggio dalla Commissione europea, l’Eurozona dovrebbe crescere dell’1,6% per quest’anno e dell’1, 8% l’anno prossimo. E sebbene il Pil dell’Italia si annunci più debole di quello degli altri grandi paesi europei e di quanto previsto a novembre, con l’l% per quest’anno e 1’1,3% per l`anno prossimo (contro l’l,l% e 1’1,4% stimati precedentemente), il governo è sulla «strada giusta», ma deve proseguire la sua politica di rigore, attuando anche «riforme più ampie» per dare slancio alla crescita.



È quanto ha dichiarato il Commissario europeo per gli Affari economici, Olli Rehn, presentando il documento, da cui emerge un miglioramento del deficit italiano, al 4% per il 2011 e al 3,2% per il 2012, contro il 4,3% e il 3,5% delle stime di novembre. Mentre il debito, dopo un aumento al 120,3%, scenderà al 119,8% l’anno prossimo. «Durante la crisi, l’Italia ha adottato una politica di bilancio molto prudente, e quindi il deficit non è cresciuto quanto in altri paesi: questo ha avuto un impatto sul debito», ha ammesso Rehn, secondo cui adesso «c’è bisogno di un consolidamento della politica di bilancio e delle finanze pubbliche: la combinazione di questi due fattori consentirà all’Italia di superare sfide formidabili».



Il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, ha sottolineato come «quello che in questi tre anni molto difficili ha fatto il governo non è stato solo mantenere in ordine i conti pubblici, ma tenere il bilancio della Repubblica italiana» e ha riconosciuto che occorre «fare di più» per colmare il divario di crescita rispetto ad altri paesi come la Germania, che nel 2011 avanzerà del 2,6%, riconfermando il suo ruolo di locomotiva d`Europa. L’“eccezione tedesca” (rispetto al resto del continente vecchio) – occorre chiedersi -dipendesoltanto dalla capacità di esportare (un attivo della bilancia commerciale di 200 miliardi di dollari, pari al 5% del Pil negli ultimi 12 mesi) specialmente verso l’Est e i nuovi Paesi ad alta crescita? Ma, pur se così fosse, quali sono le determinanti sottostanti la spinta dell’export?



Alcune sono di lungo periodo: negli anni Sessanta le hanno individuate con cura due economisti – uno americano, Charles Kindleberger, e uno ungherese, Ferenc Janossy – che non si sono mai incontrati e appartenevano a scuole di pensiero contrapposte (Janossy era rigorosamente marxista). La Repubblica federale ha una dotazione ricchissima di risorse umane molto competenti, molto flessibili (un accordo analogo a quelli di Pomigliano e Mirafiori è stato fatto alla Volkswagen circa 20 anni fa), propense al risparmio, contenute nei consumi (nel cui ambito preferiscono quelli culturali – grandi lettori di libri e giornali e frequentatori di sale di concerto e teatri- tali da arricchire ulteriormente).

Altre sono relativamente più recenti e riguardano l’economia reale più che i conti pubblici (la cui tenuta, comunque, non fa affatto male). La più importante concerne la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economie di scala, sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.

Il processo è descritto con cura nel Rapporto su ricerca, innovazione e andamento tecnologico in Germania, pubblicato l’autunno scorso dal Politecnico di Monaco di Baviera. In breve, come confermato da un lavoro appena pubblicato dalla Fondazione Adenauer e dalla Fondazione Fare Futuro, un aspestto dell’“economia sociale di mercato” lo avevamo anche noi (l’integrazione tra manifatturiero e servizi), ma vi abbiamo rinunciato mentre la Repubblica Federale Tedesca lo ha intensificato.

Altro elemento importante: le medie imprese. Prevale la meccanica, che genera il 46% dei ricavi complessivi del comparto; circa il 43% del fatturato proviene da quelle che operano nella fascia alta e medio-alta della tecnologia, contro il 30% in Italia e il 27% in Spagna; soprattutto hanno ampliato gradualmente le loro dimensioni, tramite fusioni e acquisizioni, nell’ultimo quarto di secolo per fare fronte a vincoli di liquidità e difficoltà di crescita del capitale umano (due caratteristiche di aziende troppo piccole). Da noi le imprese restano lillipuziane pure a ragione di incentivi perversi (sulle dimensioni aziendali) provenienti dalla legislazione lavoristica.

In breve, la Germania di Angela Merkel ha lo stesso dilemma della Germania di Bismarck: è così grande nell’Ue e, a maggior ragione nell’Eurozona, che un suo starnuto causa la polmonite ai vicini; non è abbastanza grande da potersi prendere cura dei problemi di tutti (specialmente di quelli che avendo razzolato come cicale sono carichi di debiti e hanno difficoltà a onorarli).