Soltanto cinque anni fa sarebbe stato folle ma oggi, nel mondo post-Lehman Brothers, si può tranquillamente affermare che il libero mercato abita in Cina e lo statalismo è di casa negli Stati Uniti. Per una serie di motivi che cercherò di spiegarvi e che vanno al di là del fatto che gli Usa abbiano sfondato lunedì scorso il tetto legale del debito e Tim Geithner abbia annunciato che il Tesoro metterà le mani nei fondi pensione federali per fare cassa e pagare interessi e cedole. Si tratta di altro: valuta.
Nonostante la tiepida risposta ottenuta nel primo giorno di collocamento a Hong Kong dello yuan come moneta offshore lo scorso mese, gli analisti restano ottimisti e prevedono che questo sia il primo ma fondamentale passo per la trasformazione della divisa cinese in valuta globale. Per Jeff Ward, broker alla Icap, l’internazionalizzazione dello yuan «è una delle cose più eccitanti sul mercato dei cambi stranieri accaduta dall’introduzione dell’euro. La creazione di un mercato offshore potrebbe essere un atto analogo al mercato euro/dollaro dei tardi anni Sessanta e dei primi Settanta», riferendosi ai depositi denominati in dollari in banche al di fuori degli Stati Uniti.
L’indice denominato in yuan Huixian Reit Ipo è sceso del 10% quando è debuttato alla Borsa di Hong Kong lo scorso mese, ma la domanda di generi denominati in yuan continua a essere forte. I depositi in yuan a Hong Kong, il principale test per prodotti in yuan offshore, hanno raggiunto i 451,4 miliardi di dollari nel primo trimestre, otto volte il dato dell’anno precedente. Il tasso di crescita dei depositi, poi, sta crescendo a un ritmo di 60 miliardi di yuan al mese contro la previsione di Deutsche Bank di 20 miliardi al mese.
Lo stesso istituto tedesco si dice certo che il ruolo della valuta cinese sta crescendo in proporzione allo status economico del Paese e si sbilancia pronosticando che il sistema monetario globale sarà caratterizzato da valute di riserva “tri-pod”, ovvero dollaro, euro e sul lungo periodo yuan, destinato a scalzare yen e franco svizzero. Per il già citato Jeff Ward, «nonostante attualmente lo yuan incida molto poco sui 4 trilioni di dollari al giorno di commercio in valuta estera, potrebbe diventare la chiave del commercio tra Usa ed Europa e potrebbe rimpiazzare il dollaro/yen e l’euro/yen. Il tempismo di questa opzione è tuttora sconosciuto, ma la direzione è quella. Per cui, chiunque operi nel mercato dei cambi sa che la storia è questa e farà di tutto per posizionarsi e poter partecipare alla festa».
Anche perché altri fattori stanno creando le condizioni per un rafforzamento dello yuan. Nonostante, infatti, il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, continui a dire che un dollaro forte è nell’interesse degli Usa, la cosa più probabile è che il biglietto verde continui a scendere nei prossimi anni, proprio per la pressione che Washington sta mettendo sulla Cina affinché rivaluti lo yuan. Se la divisa cinese si apprezzasse del 5-7% contro il dollaro nei prossimi cinque anni, cosa che molti analisti si attendono, il biglietto verde è destinato a scendere del 20-30% sugli indici basati su un paniere di valute. E questo non solo per l’impatto diretto dello yuan su questi indici, ma perché un rafforzamento della divisa cinese avrebbe un effetto a catena sui competitor commerciali, sui partner in Asia e sugli altri grandi mercati emergenti, che a quel punto sarebbero più disponibili a far rivalutare le loro monete.
Aggiungete a questo la correlazione creatasi tra euro e yuan – che spesso si sono mossi in tandem negli scorsi anni – e l’impatto positivo della crescita economica cinese sui dollari australiano e canadese e appare davvero difficile difendere l’argomentazione a favore di un dollaro forte sposata da Tim Geithner. «La gente parla da tempo della debolezza del dollaro, ma vi assicuro che non abbiamo ancora visto niente del genere al riguardo», assicura Douglas Borthwick, direttore del Faros Trading di Stamford, secondo cui «la prospettiva è quella di un dollaro a 1,50 sull’euro in breve tempo, con la possibilità di salire ancora non appena lo yuan sarà rivalutato». Nonostante la scorsa settimana il dollaro abbia conosciuto una ripresa, mandando l’euro ai minimi da marzo, questa crescita viene definita di brevissimo termine dagli analisti, visto che comunque dall’inizio dell’anno il biglietto verde ha perso il 6% contro l’euro. E le implicazioni che un dollaro debole porta con sé sono molteplici e toccano sia l’economia Usa che quella globale.
Se da un lato renderebbe i costi della manifattura Usa più competitivi, dall’altro aumenterebbe i costi delle importazioni, con un potenziale effetto di contrazione per consumatori ed esercenti. Renderebbe più economico per i turisti stranieri visitare gli Usa e comprare proprietà immobiliari americane, ma aggraverebbe i costi per gli statunitensi che intendono andare all’estero. Il problema è che se il declino del dollaro fosse troppo rapido, l’inflazione potrebbe salire, mentre la Cina e altre nazioni ridurranno la loro posizioni sui Treasuries, atto che potrebbe innescare un innalzamento dei tassi d’interesse Usa e della “bolletta” del debito da pagare. Nelle ultime due settimane, i mercati hanno cominciato ad alimentare speculazioni riguardo una potenziale presa meno ferrea della Cina sullo yuan. Le aspettative in tal senso sono cresciute dopo che il Tesoro Usa ha dichiarato, basandosi su commenti di funzionari cinesi durante colloqui di alto livello, che la seconda economia mondiale ora intende applicare l’apprezzamento della sua moneta come parte della strategia anti-inflazionistica.
Pechino, infatti, ha già permesso un apprezzamento dello yuan nelle scorse settimane, pari allo 0,9% contro il dollaro e del 5% da quando la Cina ha slegato la sua moneta dal peg biennale con il dollaro lo scorso giugno. Da quando poi lo yuan ha ricevuto il via libera per essere trattato entro una banda più ampia nel 2005, la crescita rispetto al dollaro è stata del 27%. Ma un altro elemento che spiega la debolezza del dollaro, al di là dello yuan, è il cambiamento dell’impatto del suo valore rispetto ad altre monete. Alcuni analisti hanno cominciato a mettere sullo stesso piano la crescita di yuan ed euro, parzialmente a causa del fatto che il tasso di cambio dollaro/yuan è stato strettamente correlato con il dollar index, la cui componente maggiore è proprio in euro, con il 58,6%. Le altre componenti sono lo yen (12,6%), la sterlina (11,9%), il dollaro canadese (9,1%), la corona svedese (4,2%) e il franco svizzero (3,6%).
Con una tale aspettativa di deprezzamento del dollaro, gli investitori si aspettano sempre minor finanziamento del conto corrente e del deficit di budget Usa da parte della Cina, quindi aprendo una necessità di finanziamento che porterà a rivolgersi ad alcune nazioni europee, come la Germania, con ampi surplus. Per Jeffrey Young, analista monetario alla Barclays Capital di New York, «per attrarre i risparmi extra-Usa per finanziare i deficit statunitensi, è necessaria una combinazione di dollaro debole rispetto a euro, yen o sterlina e tassi d’interessi più alti». Non è un caso che nei periodi successivi al primo de-peg della Cina, nel luglio 2005 e del secondo lo scorso giugno, si sia registrato un aumento degli acquisti cinesi di euro, sterlina e dollaro australiano per diversificare le riserve.
La domanda, ora, è una sola: quanto può crescere lo yuan? Molti economisti lo hanno fattorizzato in un modesto 5-7% di apprezzamento quest’anno nonostante ci siano stime che vedono lo yuan svalutato del 40% rispetto al dollaro. Se il dollaro dovesse deprezzarsi in base alla previsioni medie del 5% l’anno per i prossimi cinque anni rispetto allo yuan, questo significherebbe un 20-25% di calo nel dollar index, basato sulla stretta correlazione tra questo indice e il dollaro/yuan. Il già citato Borthwick della Faros Trading pensa che il dollaro potrebbe indebolirsi del 7,8% l’anno contro lo yuan, ipotesi che potrebbe tradursi in un calo del 40% nell’Ice dollar index nel prossimi cinque anni. A suo avviso, questo trend corrisponde alla caduta del dollaro contro lo yuan nel periodo che va dall’ottobre 2007 al marzo 2008, lasso di tempo in cui nessuno, né in Cina né negli Usa, discuteva riguardo il ritmo del declino del biglietto verde.
Un 40% di calo può sembrare una prospettiva estrema, ma non per gli standard dei mercati monetari globali: per guardare il trend in prospettiva, il dollaro australiano è cresciuto dell’81% dal 2008 a oggi e in molti continuano a comprare! Inoltre, come se tutto questo non bastasse, da ieri la Cina ha ufficialmente dichiarato guerra al Comex e al suo monopolio globale sulle commodities metalliche aprendo l’Hkmex, il mercato cinese dei derivati sui metalli, destinato a diventare un competitor pericoloso poiché creato su misura per compratori e non per speculatori o grandi istituzioni finanziarie.
Come? Semplice, attraverso i volumi dei contratti. Un contratto derivato Hkg rappresenta, infatti, un barra da 1 chilogrammo di oro “good delivering”, equivalente a circa 34mila euro in oro: un prezzo che consente a una vasta platea di investitori privati di portare a scadenza il contratto e farsi consegnare fisicamente il metallo, finalità per cui è garantita la massima trasparenza attraverso corrieri privati di cui si conosce ogni singolo particolare e dettaglio già attraverso il sito dell’Hkmex. Questo a differenza del Comex, dove il contratto equivale a 100 once e la quantità minima per ottenere la consegna fisica è di 400 once, ovvero circa 420mila euro, cifra che assottiglia e non di poco la platea dei potenziali investitori e si sostanzia nel paradiso della speculazione pura e semplice, con caveau in realtà vuoti. Che ne dite, siete d’accordo con me che il liberismo abita più a Pechino che a Washington?