La crisi del debito sovrano in Grecia non è di facile soluzione e lo si capisce bene dal dibattito in corso. Il Paese è ormai considerato incapace di gestire il proprio debito, quindi diretto all’insolvenza, e se questo si presentasse sul mercato dei titoli di Stato sarebbe costretto, per superare le resistenze dovute alla sua reputazione, a offrire tassi così elevati che da soli lo porterebbero al fallimento; la Grecia è in vicolo cieco.



Pubblicamente vengono discusse due fattispecie di soluzioni, la ristrutturazione del debito e gli aiuti Ue; in realtà, tra le soluzioni andrebbero annoverate la svalutazione reale del debito, l’austerity, e il semplice fallimento, nonché qualsiasi delle 26 combinazioni delle cinque fattispecie dette. Se è vero che “in medio stat virtus” (e “virtus” in questo caso sta per “opportunità politica”), la soluzione finale sarà appunto una qualche combinazione di questi elementi. Per capire il valore di una tale soluzione è il caso di entrare nel merito delle cinque alternative “pure”.



1) Con ristrutturazione si intende generalmente l’allungamento dei tempi di rientro del debito. Tale soluzione eviterebbe alla Grecia di doversi presentare sul mercato per un certo periodo, nella speranza che alla nuova scadenza i conti pubblici si trovino sufficientemente in ordine da permettere un rinnovo del debito a condizioni sostenibili; è quindi una soluzione-ponte utile per scavalcare difficoltà contingenti, e quindi è solo un inutile palliativo temporaneo se i problemi hanno carattere strutturale come sembra valere nel caso greco.

Va da sé che all’allungamento del debito non deve corrispondere, come accadrebbe in un contesto di mercato, l’aumento dei tassi – altrimenti siamo punto e da capo – pertanto i creditori dovrebbero sottostare a un mancato guadagno perché rinuncerebbero a prezzare sia il rischio (chi dice che alla scadenza i conti saranno “sani”?) che i più lunghi tempi di rientro. È una soluzione “fuori mercato” ed è comprensibile che i creditori – come dice Francesco Forte – resistano a questa soluzione.



2) Con gli aiuti Ue si ottiene un po’ lo stesso effetto della ristrutturazione, in quanto gli aiuti si sostanziano in finanziamenti a tassi di favore (fuori mercato) per tutto il periodo di “risanamento”, cioè finché il Paese non sarà in grado di presentarsi autonomamente sul mercato. In questo caso il debito esistente mantiene le originarie condizioni – i creditori non vengono coinvolti – ma viene volta volta sostituito alla scadenza con gli aiuti comunitari; è chiaro che l’onere viene traslato sulle casse comunitarie, quindi sui contribuenti europei sia come costo-opportunità rispetto a impieghi alternativi sia, eventualmente, come perdita pura se comunque il Paese fallisse; queste forme di assistenza hanno perciò un forte effetto deresponsabilizzante presso i beneficiari. Chiaramente l’opinione pubblica di vari Paesi è avversa a questa soluzione.

Limitandoci alle due soluzioni più discusse, quindi, la discriminante è solo “chi paga”. Dal mio punto di vista liberista (termine purtroppo abusato e snaturato al pari di “liberale”) non avrei dubbi: la responsabilità del debitore è rivolta ai creditori, che a loro volta traggono i dovuti vantaggi (interesse) dall’aver prestato i propri capitali, quindi siano i finanziatori della Grecia a subire i costi di una sorta di “concordato preventivo”.

Ritengo che debba essere valido un principio in qualche modo “contrattuale” che interiorizza anche aspetti morali: così come il creditore “privatizza” gli utili dell’operazione (è l’unico a godere dei relativi interessi), gli eventuali costi – che fanno parte del rischio tipico dell’operazione stessa – devono essere “privati”, e non è quindi accettabile mutare le posizioni in modo asimmetrico, come nel caso degli aiuti comunitari, in cui il solo costo viene “socializzato”. Questa è anche una condizione necessaria perché il mercato funzioni e i prezzi abbiano un valore economico. D’altra parte, se i creditori stessi non credono al risanamento, chi altri dovrebbe crederci?

Tra le due, la ristrutturazione è la soluzione più corretta; l’altra soluzione deve esser letta come un tentativo di proteggere (alcuni) creditori, quindi ha motivazioni politiche, ma non economiche. Ma, dicevo, esistono altre soluzioni in buona parte ignorate.

3) La svalutazione reale è un meccanismo sempre all’opera attraverso l’inflazione dei prezzi, che riduce appunto il valore reale dei debiti (per il caso italiano esistono addirittura proposte di inflazione al 10%, giustamente stigmatizzate, per permettere il rientro nei parametri di Maastricht). Avendo ceduto la sovranità monetaria, la Grecia non può inflazionare nella misura necessaria. Potrebbe ottenere lo stesso risultato con l’uscita dall’Eurozona, perché una qualsiasi nuova dracma (che non sarà certo l’antico elettro della Lidia) sconterebbe immediatamente i rischi sul debito cedendo almeno un terzo del suo valore in termini di valuta estera; se il debito estero reale si riducesse, salirebbe però il valore reale dei relativi interessi, e le prospettive di inflazione dei prezzi (causate dall’aumento dei prezzi all’importazione e del pericolo di monetizzazione del debito da parte della Banca Centrale ellenica) causerebbero ulteriori rivendicazioni di rendimenti più elevati. L’uscita dall’euro è quindi un’opzione fin troppo pericolosa, oltre a essere giuridicamente impraticabile a meno della contemporanea uscita anche dall’Ue. Esistono modi meno cruenti di suicidarsi, insomma.

4) L’austerity è un’opzione che, a un certo momento, era pure sembrata come già accettata. Si tratta della riduzione dello Stato, sia come sua presenza diretta nell’economia (vendendo asset ed enti – le cosiddette “privatizzazioni”) che come qualità e quantità dei servizi forniti. In termini semplici, lo Stato spende meno, eliminando così stimoli ad alcuni settori e riducendo pure lo Stato sociale. Eziologicamente questa è la soluzione più appropriata, perché va direttamente alle cause della dinamica insostenibile della spesa, che alimenta il debito pubblico, ed è l’unica vera soluzione “positiva” che può avere carattere strutturale (benché connotati congiunturali possano ben essere presenti, come “moratorie temporanee di spesa” o “balzelli fiscali” con il solo fine di scavalcare il periodo di turbolenza). In fondo si tratta del comportamento tenuto da un qualsiasi debitore che intenda onorare i propri debiti: rivedere il proprio standard di vita almeno in attesa di una ripresa dei propri redditi.

Come ho già sostenuto su queste pagine, un tale tipo di “riforma” dei piani di spesa è quanto sta permettendo all’Italia di venir solo lambita dalla crisi debitoria della “periferia” europea. È chiaro che tale soluzione venga osteggiata dalle “parti sociali” – benché debba esser chiaro che almeno parte di loro ha goduto fino a oggi di standard di vita superiori alle proprie possibilità – e la sua attrattiva politica è pertanto molto bassa; in effetti la parte più consistente delle proposte di austerity greca passino dalla vendita di asset.

5) Il fallimento è una soluzione, diciamo la soluzione finale, che si cerca di evitare attraverso le altre già presentate. In concreto il fallimento (o default, per non confonderlo con il termine giuridico) è il riconoscimento dell’insolvibilità di un credito, per cui viene dichiarato “inesigibile”, dato per perso, cancellato in tutto o in parte (haircut). Il danno reputazionale è enorme, perché lo stigma di fallito non può che riflettersi in più alti premi al rischio (e quindi tassi) pretesi dai futuri finanziatori.

In realtà, nella misura in cui si può contare nel rapido recupero di credibilità permesso dal cambio di esecutivo e Parlamento, e in forza della avvenuta cancellazione di parte del debito, questa soluzione può avere una sua appetibilità politica ed economica (e questo risulta anche da vari lavori accademici). Anche questa è, in effetti, una soluzione di mercato, dove chi si è lanciato in un’operazione con una controparte più o meno “rischiosa” trae i relativi vantaggi (interessi più o meno alti), ma subisce anche i conseguenti oneri (perdite in conto capitale).

D’altra parte, gli interessi incorporano un premio per il rischio di controparte che, appunto, probabilisticamente ripaga del costo in termini di inesigibilità del credito; chi si avvantaggia di questo, come già detto nel caso della ristrutturazione, non può che scontarne la relativa contropartita. Chi si oppone a questa soluzione sono gli stessi, e per gli stessi motivi, del caso della ristrutturazione.

Come già detto, è ben probabile una “sesta via” come combinazione delle precedenti: in parte austerity, in parte aiuti, in parte ristrutturazione e in parte fallimento (in forma di haircut); l’uscita dall’euro mi pare da escludere. Il peso relativo delle alternative resta un fatto del tutto politico: se si volesse agire in modo coerente con le dinamiche del dissesto e nel rispetto (o in restaurazione) dei principi di responsabilità, dovremmo passare per una significativa riduzione dello Stato bilanciata in parte con rinunce da parte dei creditori (haircut e ristrutturazioni a loro carico); temo invece che gli aiuti (rafforzati però con una forma di “commissariamento”) faranno la parte del leone.

 

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