Non si è votato solo a Milano o a Napoli nel corso di questo maggio pazzerello per la politica. La sorpresa maggiore, a livello globale, riguarda l’esito del voto di Singapore, che nel corso dei decenni ci ha abituato a consensi bulgari per la dinastia fondata da Lee Kuan Yew che governa, con risultati eccellenti, dal ‘69 l’isola che ha fatto da battistrada al boom delle economie emergenti.
Ebbene, nonostante l’economia continui ad andare a gonfie vele, il partito di governo, che pure dispone della maggioranza assoluta, ha subìto una pesante flessione che ha avuto riflessi immediati: Lee Hsien Long, il figlio del “padre della patria” (che ha rinunciato per la prima volta a una poltrona nel consiglio dei ministri) ha cambiato 11 ministri su 14. Intanto, ci si interroga sulle ragioni della disfatta che, secondo le prime analisi, ha due spiegazioni: l’aumento del costo della vita, legata alla spirale inflazionistica, e i disagi legati all’emigrazione.
Perché occuparci di Singapore? Perché, ancora una volta, l’isola promette di essere un indicatore sensibile delle tendenze dei Paesi emergenti. I segnali di malessere legati all’aumento del costo della vita sono sempre più evidenti un po’ ovunque, dal Brasile alla Cina. Intanto, cresce la tensione sul fronte dei tassi, condizionata dall’inflazione indotta dall’aumento delle materie prime.
Tutto questo porta un economista brillante e pessimista, Russell Napier, a lanciare un nuovo allarme: finora abbiamo pensato, scrive, che il malessere delle economie dipendesse dai problemi dell’America, compresi gli effetti collaterali della politica monetaria “facile”. Ora, al contrario, dobbiamo guardare con apprensione verso i Bric: è nell’aria una frenata dei Paesi che hanno tenuto a galla l’economia mondiale. Intanto, il “quantitative easing” promosso dalla Federal Reserve va verso la sua conclusione senza aver almeno avviato a soluzione i problemi strutturali degli Usa, a partire dallo stato comatoso del mercato immobiliare.
In questi anni, in realtà, l’allarme delle Cassandre è suonato invano in più di un’occasione. Ma l’analisi di Napier contiene comunque elementi che vanno tenuti ben presenti. È quasi scontato, tanto per cominciare, un rallentamento delle locomotive del pianeta. Soprattutto, non va trascurato il fatto che il Giappone, dopo il terremoto, è entrato tecnicamente in recessione con un calo del Pil dello 0,9%. L’effetto Tokyo, combinato con il parziale riequilibrio di altri Paesi clienti dell’industria europea, non può non produrre i suoi effetti sull’Ue: come segnala il Fondo monetario internazionale, la ripresa rischia di ridursi a una ripresina. E la cosa non potrà non ripercuotersi sulla Germania, che sulla domanda dalla Cina ha fondato il suo formidabile recupero. E, di riflesso, sull’Italia.
Negli ultimi due anni, una parte dell’economia italiana ha ripreso a correre sull’onda della domanda del cliente tedesco e grazie al forte recupero della domanda in settori, vedi l’industria del lusso, in cui eccelle il made in Italy. Oggi, certe previsioni vanno riviste verso il basso: è inevitabile che i negozi di Ginza, costretti a spegnere le luci alle sette di sera per il razionamento dell’energia ancora in atto a Tokyo, non possano registrare gli stessi fatturati di un anno fa. Qualche nuvola, insomma, si affaccia sull’orizzonte dei mercati azionari, proprio alla vigilia del mese che vedrà l’esordio di Prada sul listino di Hong Kong e di Ferragamo a Milano.
Ma le vere preoccupazioni, a proposito di mercati finanziari, riguardano gli aumenti di capitale delle grandi banche, a partire da Intesa, per quanto riguarda l’Italia. Il rafforzamento patrimoniale delle istituzioni del credito è un passaggio chiave nella strategia per il risanamento dei debiti sovrani, detenuti in larga misura nei forzieri delle banche tedesche, francesi, ma che minacciano di colpire anche la salute del sistema italiano.
Di tutto questo dovrà tener conto l’Unione europea, alle prese con un dilemma sempre più pressante: da una parte urge affrontare con la massima determinazione il nodo dei debiti sovrani. Ma guai a esagerare con il rigore in una situazione economica ad alto rischio, in cui il rafforzamento dell’euro potrebbe dare il colpo di grazia alle speranze di ripresa. I margini di manovra comunque, sono davvero stretti.
Non aiuta, infine, l’“affaire Dsk”, cioè le dimissioni forzate del direttore generale del Fondo monetario internazionale. Un duro colpo per il residuo prestigio europeo. E una buona occasione per Paesi come il Brasile o la Turchia per prendersi una rivincita nei confronti di un’istituzione che, fino a dieci anni fa, ha dettato le linee della politica economica di Paesi allora carenti di capitali. Non è per niente scontato che il “nuovo” Fmi, potenziato dalle risorse di India e Cina e altri Bric, sia così sensibile alle richieste di aiuto della periferia d’Europa, alle prese con i debiti sovrani.
Questa la situazione alla vigilia del giro di boa di metà anno, quello che dovrebbe segnare la fine della politica d’emergenza della Federal Reserve, ovvero l’avvio del rientro dalle agevolazioni del quantitative easing. In realtà, gli umori vanno in una direzione opposta. La sensazione è che il rischio di ricadere in recessione e deflazione sia più sentita a Washington che la minaccia dell’inflazione, nonostante l’alto livello del petrolio. Anche perché, pur tra alti e bassi, la macchina Usa si è rimessa in moto: la tecnologia, come dimostra il successo dell’Ipo di Linkedin piuttosto che il blitz di Microsoft su Skype, continua a far da traino a un sistema che ha in cassa la maggior liquidità della sua storia.
Peccato che Giulio Tremonti non goda di fortune simili. Nelle prossime settimane il ministro, che si è tenuto ben lontano dalle tensioni elettorali, dovrà fronteggiare la scontata, inevitabile e comprensibile pressione degli alleati di governo per allargare i cordoni della Borsa. Ma, forte degli impegni presi in sede europea, potrà opporre secchi no a qualsiasi operazione incida sulle finanze pubbliche.
Diverso il discorso sulla riforma fiscale, già troppe volte annunciata. L’“emergenza” politica ed economica dell’esecutivo potrebbe dare a Tremonti la forza per passare dalle parole ai fatti. Possibile, anzi auspicabile. Ma le riforme fiscali, anche quando sono efficaci, difficilmente portano consensi politici nel breve termine. E possono dare effetti indesiderati a proposito dei flussi di capitali. Tremonti, che alle spalle ha una lunga carriera di fiscalista, lo sa bene. Per questo con il suo veto ha bocciato quegli accordi fiscali sulla circolazione dei capitali già accettati dagli altri paesi della Comunità ma che, al nostro ministro, “sembrano scritti in Svizzera, non a Bruxelles”.
Non è certo il momento di abbassare la guardia. E non c’è più spazio, nel breve, per un nuovo scudo.