“Il decennio perduto alle nostre spalle, in termini di minore competitività e mancata crescita, viene da divisioni e lacerazioni interne a ciascuno dei due poli della politica, alle prese con fratture e problemi di leadership personali anteposti agli interessi del Paese”. È difficile non essere d’accordo con la diagnosi di Emma Marcegaglia: i risultati della politica, dal 2001 a oggi, sono stati assai modesti.



Si può dire, in estrema sintesi, che i due poli (senz’altro più il centrodestra che non il centrosinistra, se non fosse che per la maggior durata della permanenza nella stanza dei bottoni) hanno senz’altro mancato la straordinaria occasione offerta dall’entrata nell’area euro. Quanto sarebbe stato più facile, ad esempio, avviare la riforma fiscale in una stagione di tassi bassi e denaro abbondante, trasferendo parte dalla tassazione dalle persone alle cose come predicava negli anni Novanta un ruspante e battagliero giovin studioso dal nome di Giulio Tremonti.



Chi l’ha fatto, vedi la Germania, ha posto le basi per una straordinaria ripresa di efficienza del sistema. Ma non va dimenticato che Gerhard Schroeder, principale attore della riforma, ci ha rimesso il posto di primo ministro e di segretario della Spd. Come, forse, gli era stato già anticipato dai sondaggisti tra Berlino e Francoforte.

Quanto sarebbe stato più saggio utilizzare il presunto “tesoretto” per aggredire il debito, invece che baloccarsi su presunti aiuti alle famiglie che si sono tradotti in interventi di spesa corrente, come ci ha spiegato, in un prezioso ciclo di lezioni televisive, il professor Romano Prodi. Ma i buoni propositi sono andati in fumo per tenere in piedi una coalizione estremamente “larga” negli interessi e negli obiettivi. Cosa che è riuscita solo per un po’.



Difficile non essere d’accordo con la diagnosi della Marcegaglia. Ma c’è da chiedersi quale sia stato il ruolo degli industriali, in tutto questo tempo. Nel decennio di occasioni perdute, da quel che si è visto, il partito degli industriali è stato, il più delle volte, a guardare. Senza assumere le posizioni che era legittimo attendersi dalle lobbies dell’impresa. Per carità, a confutare questa sensazione ci stanno volumi e volumi di interventi, analisi, studi e convegni. Per certi versi, si può convenire che l’accusa è ingiusta: nel caso dell’impegno contro la mafia nelle regioni meridionali, ad esempio. La battaglia contro il pizzo è un ottimo esempio di partecipazione. Ma, a livello di confederazione, non c’è stata analoga mobilitazione sul tema del rapporto tra giustizia ed economia.

Perché la Confindustria non si è battuta per dettare regole certe in materia di 231, cioè di corretta governance aziendale, lasciando che la materia sia discrezione dei pm? Perché non c’è stata un’azione altettanto forte di quella, sacrosanta, contro chi paga il pizzo, a proposito di chi sgarra in materia di sicurezza sul lavoro? Il risultato è che gli imprenditori virtuosi sono stati criminalizzati al pari di quelli che, pur rispettando in caso gli oneri di legge, hanno abusato delle imprese terziste, chiudendo entrambi gli occhi. Il risultato è una doppia verità, fatta apposta per coprire il vuoto di iniziativa.

Esemplare, al proposito, la doppia verità del recente convegno di Bergamo. La base degli imprenditori è esplosa in un solenne e liberatorio applauso di fronte al manager di Thyssen condannato per omicidio volontario. Mica per sadismo. Ma perché finalmente aveva occasione di esprimersi su una materia che sentiva vicina alla propria realtà: sia chi fa il possibile per mettersi in regola (ma rischia lo stesso accuse capitali), sia chi esercita l’arte della furbizia. In tutto questo, Confindustria ha badato a non rompere le uova nel paniere, ovvero a non scontentare troppo padroni e padroncini .

Certo, fa bene Emma Marcegaglia a rivendicare di essere il presidente di tutti gli industriali, non piegandosi ai desiderata della Fiat. Non si vede per quale motivo una larga fetta del mondo dell’industria meccanica, che ha trovato in maniera più che soddisfacente il modo per convivere con la Fiom (che in tante piccole e medie aziende ha comportamenti ben diversi da quelli di Mirafiori o Pomigliano, come ha dimostrato lo stesso caso Bertone) dovrebbe partecipare a una crociata che non sente sua per far piacere a Marchionne. Ma il numero uno del Lingotto, in questi anni, ha indicato una strada (certo non la sola) che il capitalismo italiano deve percorrere se vuol recitare un ruolo nel mercato globale. Una strada che di certo non intende mettere a rischio per interventi della magistratura o ricerca estenuata di compromessi al tavolo delle trattative che richiedono anni, mica mesi.

È anche così che l’industria italiana si è votata al nanismo, accettando regole, leggi e comportamenti che hanno penalizzato le aziende di maggiori dimensioni. Quelle che, in questi anni, sono quasi sparite. Certo, ci possiamo consolare con il “quarto capitalismo”, che ben si è guardato, fino a ieri, di crescere al livello di grande impresa. Ma non illudiamoci: nel mercato globale, non si va avanti senza le dimensioni che consetono investimenti, marketing e ricerca adeguate.

Colpa della Confindustria? Assolutamente no. Ma in questi anni, forse, sarebbe stato più opportuno affrontare questi problemi, tipici di un’economia che stenta a crescere e a catapultarsi nel mondo post-industriale, piuttosto che lanciare ammiccamenti, mezze critiche, velati colpi di spillo al potente di turno, magari attraverso il giornale di casa che, a giudicare dalla risposta del mercato finanziario, non è certo considerato un modello di virtù imprenditoriale.

Forse è l’ora di lanciare una nuova parola d’ordine per la Confindustria che verrà: più mercato, meno palazzo Chigi, che tanto ci deluderà.