La parola d’ordine di oggi e di quanto accaduto ieri in Pakistan è una sola: premio di rischio. Lo ha confermato al Financial Times, El Erian, chief investment officer di Pimco, secondo cui «i mercati guarderanno alla morte di Osama Bin Laden come un’implicita riduzione della minaccia terroristica, come l’eliminazione di un rischio specifico e, per questo, come un elemento di abbassamento del premio di rischio». Evviva, tutti a investire in sicurezza!
Il problema è che i mercati, a differenza dei governi e delle gente comune, difficilmente si fanno prendere in giro da notizie del genere: non perché siano popolati da gente più intelligente, ma perché hanno a che fare con i soldi. E nessuno ha voglia di perdere soldi, americani in testa. Due settimana fa preconizzavo l’arrivo di un conflitto come risposta alla crisi ormai mortale del debito Usa e alla necessità di alzarne il tetto massimo al fine di evitare un default: nessuna “false flag”, invece, il Dipartimento di Stato e la Cia hanno preferito tirar fuori dal cilindro la morte di Bin Laden, successo atteso da dieci anni e che casualmente è avvenuto nel corso della peggior crisi interna degli Usa a livello di conti pubblici, con un presidente passato in pochi giorni dall’umiliazione di dover mostrare il certificato di nascita in tv allo status di uomo che ha eliminato il responsabile dell’11 settembre, il vendicatore degli States, Capitan America.
Signore e signori, la campagna elettorale per le presidenziali 2012 è ufficialmente aperta: e Obama lo sa, visto il crollo delle donazioni da parte di Wall Street che ha colpito i Democratici. Come vi dicevo, i mercati hanno bevuto la notizia per poco tempo: all’ora di pranzo, i rialzi in Europa erano tutti limati, l’euro risaliva sul dollaro e anche l’oro recuperava forza, passando da 1540 dollari l’oncia a 1557.
Due gli effetti che si scontano: primo, i dubbi che stanno attorno alla vicenda. Tre versioni nel giro di poche ore da parte delle autorità Usa, il corpo sepolto in mare in base a una misconosciuta tradizione musulmana subito smentita dalle autorità della Grande Moschea del Cairo, una foto che la stessa Reuters ha definito da subito un frutto di Photoshop, il test del dna prima effettuato e poi invece ancora in corso in attesa dell’apertura di Wall Street con i futures che si sgonfiavano, la Cia che nel pieno di un cambio al proprio vertice mette a segno un colpo del genere e si affretta a dichiarare che i talebani si vendicheranno certamente e con violenza, di fatto rimettendo in servizio permanente effettivo la macchina della lotta al terrore. Va bene tutto, ma non siamo proprio venuti giù con la piena, come diceva il mio povero papà.
Secondo, la reale dimensione della crisi Usa, un qualcosa che non si cura con l’eliminazione di un fattore di instabilità come Bin Laden, ammesso e non concesso che sia morto davvero ieri e non qualche anno fa. Oppure che sia ancora vivo. Oppure che non sia mai esistito. Poco importa. Ciò che importa è che l’effetto Bin Laden è riuscito in una delle sue missioni principali: sgonfiare il prezzo dell’argento, rendendo il suo commercio meno favorevole e appetibile e quindi evitando che i caveau del Comex restino vuoti visto l’obbligo di consegna. L’operazione, di fatto, è cominciata venerdì scorso, quando con una mossa senza precedenti il Chicago merchantile exchange ha alzato i margini sul contratto per l’argento da 14.513 dollari a 25.397 dollari, un aumento del 75% di quanto richiesto all’investitore per aprire una posizione e l’11% del valore del contratto, rispetto al precedente 6%.
Voi come chiamate un atto simile? Io, dissuasione. E, in effetti, il combinato tra questa decisione e il breve apprezzamento del dollaro sulla scorta della notizia giunta dal Pakistan, ha fatto perdere all’argento il 10%, riportandolo nella più tranquillizzante area dei 45 dollari l’oncia, dopo giorni attorno ai 50 dollari. Al Cme hanno annunciato nuovi aumenti dei margini, «per combattere la volatilità sui mercati»: nemmeno i Monty Phyton sono mai giunti a livelli di umorismo inconsapevole tali. Il problema è uno solo: Washington, per riuscire a salvare Barack Obama nel 2012 e contemporaneamente evitare il default, dovrebbe uccidere un Bin Laden al giorno, solo così – forse – riuscirebbe a drogare anche le menti degli investitori, oltre che dei cittadini.
Già, perché dopo la conferenza stampa di Ben Bernanke, durante la quale il capo della Fed ha confermato che i tassi resteranno a zero ancora per parecchio tempo, gli hedge funds hanno aumentato a dismisura le proprie scommesse short contro il dollaro. Al 26 aprile scorso, le scommesse sul declino del biglietto verde erano ormai a quota 28,6 miliardi di dollari, 3 miliardi in più del mese precedente stando a dati ufficiali diffusi dal Commodity futures trading company: ovvero, l’America che conta e investe, scommette contro la sua valuta. E, di fatto, contro il suo governo e la sua autorità monetaria, entrambe impegnate nel deprezzamento del biglietto verde.
Sempre in base ai dati del Cftc, i traders stanno lanciandosi su euro e sterlina britannica: 12 miliardi di dollari scommessi sulla divisa comune europea, con un aumento del 12% rispetto alla settimana precedente e 3,5 miliardi di dollari in posizioni long sulla sterlina, con un aumento del 13%. Insomma, a parte lo yen – per evidenti motivi – ogni valuta al mondo è più gradita agli investitori del dollaro: non c’è da biasimarli, visto che nel giorno che vedeva l’America eliminare il suo più grande nemico, il dollaro ha retto sì e no per un’oretta sui mercati valutari prima di scendere.
D’altronde, con Ben Bernanke impegnato a stampare dollari come un forsennato, è difficile pensare che il biglietto verde mantenga un peso specifico superiore a quello di una piuma. La Fed, d’altronde, ha fatto capire chiaramente, per bocca del suo capo, che i tassi non saranno rivisti al rialzo prima dell’inizio del 2012. Inoltre, sempre Bernanke ha ribadito che la Fed compirà qualsiasi atto necessario alla ripresa economica americana, confermando che il secondo ciclo di quantitative easing verrà completato. Detto fatto, uno spasmo di gioia sintetica ha percorso Wall Street.
Peccato che nel mondo reale le cose vadano diversamente: la crescita Usa, infatti, sta calando velocemente, con il Pil annualizzato cresciuto solo dell’1,8% durante i primi tre mesi di quest’anno, in calo dal 3,1% del trimestre precedente. L’America è e resta prigioniera del debito sovrano, commerciale e privato. Ma si sa, il mondo reale è una cosa, quello dell’azionario drogato dalla Fed un’altra: subito dopo le parole di Bernanke, l’azionario Usa ha toccato il livello più alto dalla crisi dei subprime, con il Nasdaq che chiudeva ai massimi da dieci anni. La Fed, insomma, continua a stampare moneta virtuale per mantenere artificialmente in vita il sistema: per la fine di giugno, avrà comprato 600 miliardi di dollari in Treasuries a lungo termine, un’operazione che di fatto vede il governo Usa comprare il suo stesso debito da fondi creati ex nihilo.
In meno di due anni, la base monetaria Usa è raddoppiata, ma nessuno nelle elite politiche Usa vuole nemmeno mettere nominalmente in discussione il quantitative easing. Ma c’è un rovescio della medaglia. Le parole di Bernanke hanno sì messo le ali a Wall Street ma anche all’oro, +2% quel giorno e all’argento, l’oro dei poveri ma anche una grande hedge dall’inflazione, cresciuto addirittura del 6,5%. Inoltre, all’interno del bouquet delle principali cinque valute globali, il dollaro è ai minimi del luglio 2008 e il “real broad dollar index” della Fed, una composizione di 26 valute aggiustate al tasso inflattivo, sta toccando i livelli del 1979.
Eppure Tim Geithner, il segretario del Tesoro Usa, parla «di impegno per un dollaro forte nell’interesse degli Usa». Non sense totale, visto che un dollaro debole almeno aiuta l’export e abbassa il valore dei debito esterno del Paese: un insulto per i creditori Usa e i partner commerciali, posto in essere proprio dal Paese che a ogni piè sospinto accusa Pechino di manipolazione monetaria.
Sia chiaro, io amo l’America e per questo non posso sopportare di vederla governata, sia a livello economico che politico, da statalisti e anti-mercatisti della peggior specie: il problema è che in questi giorni chi non sta con Washington e le sue scelte – negare l’inflazione, negare la necessità di alzare i tassi, stampare soldi in cantina – è automaticamente bollato come qualcuno che odia l’America. Chi non ama gli Usa, invece, sono proprio i membri dell’amministrazione Obama che proseguono con la loro folle politica di espansionismo fiscale e con il QE, un qualcosa che non danneggerà solo le relazioni con l’estero del Paese, ma che porterà seri problemi ai suoi stessi cittadini.
La debolezza attuale del dollaro fa parte di un trend di lungo termine: dall’inizio del 2002 fino a metà del 2008, il biglietto verde perse il 305 su base di trattazione valutaria, ma la crisi dei subprime fece in modo che per circa sei mesi gli investitori occidentali si misero in coda per liquidare posizioni complesse e tossiche e comprare Treasuries e dollari, operazione che vide il rafforzamento netto della moneta statunitense. Dopodiché, la Fed diede vita al primo quantitative easing, ufficialmente per contrastare la deflazione, ma le necessità più pressanti erano invece salvare Wall Street e controllare il valore reale del debito governativo che lo Stato stava acquistando, missioni entrambe compiute nel momento in cui il dollaro è cominciato a scendere.
Il problema è che la debolezza del dollaro è basata su una serie di fondamentali, tra cui l’enorme e sempre crescente debito di 14.000 miliardi di dollari, cifra contenuta ufficialmente nei bilanci a cui potrebbe sommarsi ben altro. Nessuno ha fatto nulla per affrontare questo problema, anzi: si è scelta la ricetta opposta, ovvero monetizzare le proprie debolezze continuando a deprezzare la valuta.
Le azioni della Fed stanno quindi danneggiando il dollaro, perché è la Casa Bianca che lo vuole: i tassi a zero, infatti, hanno ridato forza al “carry trade”, con i mercati esteri alluvionati dai dollari facili di Bernanke. Detto fatto, un qualcosa che deprezza ulteriormente il biglietto verde e che, di riflesso, rende più care le commodities: non a caso, quando a metà del 2008 il dollaro toccò 1,60 contro l’euro, si registrò il picco record del petrolio a 147 dollari al barile. E petrolio caro, significa danni per le nazioni produttrici: con il dollaro sempre più debole, l’import Usa di commodities non fa che peggiorare il deficit commerciale del Paese (e a dimostrazione del fatto che i problemi reali degli Usa sono altri e che i mercati non si bevono l’eliminazione di Bin Laden come fattore stabilizzante, proprio ieri il petrolio ha raggiunto il record da due anni a mezzo a questa parte, sia per Wti che per il Brent). Ma, nel medio termine, il rischio è ancora peggiore: una crisi ben peggiore di quella che abbiamo vissuto nel 2008.
Un dollaro che crolla potrebbe infatti creare caos presso la varie banche centrali, intenzionate a proteggere il valore delle loro riserve. E dopo un’inevitabile spirale al ribasso, il dollaro rimbalzerà, causando il corto circuito nel carry trade, con gli investitori che di colpo si troveranno a essere debitori di una cifra più alta a causa del rafforzamento della divisa Usa. Questo si sostanzierebbe in perdite colossali per le principali istituzioni finanziarie, prodromo di rinnovate minacce a livello sistemico e globale: i mercati finanziari, di fatto, potrebbero conoscere il cosiddetto “global slump”, il crollo globale.
Leggendo tra le righe quanto detto da Ben Bernanke, poi, penso che la prima conferenza stampa del capo della Fed non sia da ricordare come l’atto di conferma del termine del QE2 a giugno, ma la preparazione del QE3: se così fosse, Barack Obama avrebbe garantita la riconferma alla Casa Bianca, ma il mondo non potrebbe sfuggire a una crisi ben peggiore di quella di tre anni fa. Chi dice di amare l’America metta mano a questi reali problemi invece di aggrapparsi mediaticamente a eliminazioni a orologeria di terroristi per rimandarli e permettere al buon Bernanke di stampare altri dollari artificiali in santa pace e al Comex di non fallire, insieme a JP Morgan Chase, per le troppe scommesse allegre sull’argento di carta a fronte della richiesta di materiale fisico. God bless America! E la salvi da Obama e Bernanke.