“Chiamiamola giornata dell’orgoglio confindustriale più che assise confindustriale”. Così un alto dirigente della confederazione degli industriali sintetizza le Assise Generali che si sono svolte sabato 7 maggio a Bergamo all’insegna di “sbloccare la crescita, liberare il mercato, premiare il merito”. In effetti, la consueta riunione biennale della Piccola Industria dell’associazione di viale dell’Astronomia è servita più che altro a un ritorno di immagine per il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e a rinsaldare il vincolo e l’orgoglio associativo in una base infiacchita o mugugnate. Questo non significa, comunque, che alcuni aspetti dell’Assise non siano stati degni di nota, pur tra contraddizioni e ripetizioni fruste di parole d’ordine.
Come spesso avviene, prevalgono le frasi fatte e gli slogan. Eppure nelle oltre 80 pagine messe a punto dalla Piccola Industria presieduta da Vincenzo Boccia, in collaborazione con l’ufficio studi della Confindustria e in particolare dagli economisti Luca Paolazzi e Giangiacomo Nardozzi, spiccavano tesi e conclusioni affatto scontate.
In soldoni, si attestava sulla base di numeri, confronti e prospettive questo: cari signori, il modello “piccolo è bello” non è più vero, o meglio non riesce a reggere il passo della competizione internazionale. Ovvero, il sistema di piccole e medie industrie che caratterizza l’Italia non può essere considerato soltanto un vanto, ma anche uno svantaggio: il capitalismo familiare, specie quando sfocia in un capitalismo familistico, non ha futuro; occorre che le piccole imprese si aprano a capitali esterni, assumano manager di nuova generazione e dalla visione internazionale, si aggreghino e si consolidino. Insomma, piccolo è bello non è più vero: o le piccole crescono oppure rischiano di perire.
Per ravvivare l’orgoglio associativo, non potevano mancare gli appelli a “sbloccare la crescita”, “liberare il mercato”, “puntare sulle liberalizzazioni”. Ottime intenzioni. Giusto incalzare il governo su misure liberali e pro crescita. Però, obiettivamente, con misure in deficit impossibili con le attuali finanze pubbliche, il decreto Sviluppo approvato la scorsa settimana dal governo contiene una serie di provvedimenti che vanno proprio nel senso auspicato dagli industriali.
Insomma, sarebbe opportuna una maggiore cautela nelle proposte. Altrimenti qualcuno potrebbe dire: cari industriali, perché non chiedete più una riforma delle pensioni con un ulteriore allungamento dell’età lavorativa? Perché ve ne siete dimenticati? E che ne è del vostro vecchio cavallo di battaglia sulla riduzione della pressione fiscale? Non è più la priorità? E perché? Certo, Confindustria chiede più liberalizzazioni. Ma visto che con le liberalizzazioni s’inciderebbe di fatto sugli ex monopolisti di vari settori, non c’è contraddizione se a chiedere più liberalizzazioni è la stessa confederazione che vede tra i suoi maggiori contribuenti proprio gli ex monopolisti?
Chissà, forse è giunta l’ora di dubitare sulla centralità della stessa Confindustria, a prescindere dal presidente o dalla presidente di turno. Forse bisognerà ricordarsi che oltre all’associazione di viale dell’Astronomia ci sono altre confederazioni che rappresentano le imprese. Basti pensare a Rete Imprese Italia, l’associazione che riunisce cinque confederazioni del settore terziario come Confartigianato, Cna, Casartigiani, Confcommercio, Confesercenti. O alla Compagnia delle Opere. Per non parlare della miriade di cooperative che sono rappresentate da cinque confederazioni. Senza dimenticare il settore della finanza e del credito. Oltre alla miriade delle partite Iva che non hanno o non vogliono avere rappresentanza.
Domandina finale: non c’è per caso una sovraesposizione mediatica di Confindustria? La domanda, ovviamente, va rivolta anche e soprattutto ai giornalisti.