Un’idea per il Nordest: assuma uno scafato esperto in comunicazione e lo strapaghi, affidandogli un incarico vincolante. Far sì che di Nordest non si parli proprio. Perché ogni volta che succede, si scade nell’esagerazione: del ridicolo, dell’estremo, del caricaturale, del miracolistico. Mai che ne esca l’immagine di un’area normale, ordinaria, con i suoi pregi e i suoi difetti; sottratta, soprattutto, al marchio dell’eccezionale.



È appena tornato a capitare, complice l’economia: è bastato che l’Istat, presentando gli ultimi dati, abbia indicato una crescita del Paese dell’1,3%, con punta del +2,1% al Nordest, che valanghe di sedicenti esperti, presunti analisti e miopi osservatori di professione si sono tuffate a rispolverare le lodi della locomotiva italiana, della terra dei miracoli, dell’operoso piccolo imprenditore nordestino con tutti i suoi stereotipi addosso (va in chiesa e bestemmia, lavora venti ore al giorno domeniche comprese, è succube degli “schèi” e via elencando).



Nulla di tutto questo, naturalmente. Come pochissimi hanno saputo cogliere, a partire da Oscar Giannino, che oltre a non aver dimenticato le nozioni elementari di statistica ha il pregio di analizzare le cose per ciò che sono, non per ciò che piacerebbe a questo o a quello. Cominciamo allora a chiarire che il Nordest è area a elevata vocazione manifatturiera, molto più della media nazionale; e che nei due anni precedenti al 2010, cui si riferiscono i dati Istat, aveva dovuto registrare cali pesanti, ben più sostanziosi rispetto al resto d’Italia.

Il motivo è evidente: la violenta crisi finanziaria mondiale ha provocato una drastica diminuzione degli scambi commerciali, e di questo ha risentito chi esportava in particolare prodotti lavorati e semilavorati, Nordest in testa. Quel +2,1% messo a segno nel 2010 è frutto dunque del recupero da una posizione nettamente inferiore rispetto a quella del resto del Paese, e in particolare del Centro e del Mezzogiorno, aree con maggior incidenza del terziario e comunque molto meno legate all’export.



In secondo luogo, mentre il Nordest del boom economico del passato viaggiava su ritmi e numeri analoghi a quelli dei principali competitori internazionali, Germania in testa, oggi risente della situazione generale del Paese. Saggiamente Giannino ricorda, ad esempio, che nelle aree comparabili tedesche, vale a dire quelle con più elevata presenza manifatturiera, la crescita è tra il 7% e l’8%, vale a dire tre-quattro volte superiore a quella del nostro Nordest; e non sono certo segnali incoraggianti quelli del primo trimestre 2011, in cui la crescita media tedesca è stata dell’1,4% (con proiezione annua del 5%), a fronte di un dato italiano di tre volte inferiore. Il tutto in un contesto planetario in cui la crescita media è del 5%, con una quindicina di Paesi emergenti che viaggiano su livelli nettamente superiori.

Sarà bene, infine, prendere nota di quanto appena segnalato da Confindustria: l’Italia ha perso due posizioni nella graduatoria dei 20 Paesi più industrializzati, superata da India e Corea del Nord; e la produzione è praticamente ferma ai livelli dell’estate 2010. I dati sono impietosi, anche perché il sistema Paese rimane saldamente ancorato alla produzione manifatturiera, alla quale sono legati più di un terzo del Pil e 8,2 milioni di unità di lavoro.

In queste condizioni, il manifatturiero Nordest può sì e no farsi vento, con quel +2,1% registrato dall’Istat. Certo, sta meglio del resto d’Italia, ma a differenza del passato non è più in grado di fare da locomotiva, trainando il resto del Paese. Si impegna come una volta, è sempre flessibile e ricco di inventiva, sa destreggiarsi nella crisi meno peggio degli altri. Ma soffre forse più degli altri dei vincoli del peso fiscale, dell’inefficienza burocratica, del calo dei consumi interni, delle difficoltà di accesso al credito, e via di questo passo.

Tanto più che non nel Far East, ma alle porte di casa, ha come vicini piccoli Paesi come l’Austria e la Slovenia dove tutte queste zavorre sono di gran lunga inferiori. Nessun brindisi, quindi, e nessuna passerella: solo la voglia di non essere considerati, una volta tanto, fenomeni da baraccone.