Vista dal magnifico atrio dell’elegante palazzo (sede del Fondo monetario internazionale, Fmi) all’angolo tra la 19sima strada e la Pennsylvania Avenue nel quartiere North West di Washington D.C. (a due passi, quindi, dalla Casa Bianca e dal Tesoro), il conflitto di successione in corso al Fmi (e i presagi di quello nella vicina Banca mondiale) assumo contorni che non vengono toccati con mano nel Vecchio Continente. Ma di cui sono consapevolissimi gli Stati “emergenti” dell’Asia e dell’America Latina.



In primo luogo, c’è un Convitato di pietra: l’inquilino del 1600 Pennsylvania Avenue (la Casa Bianca) che al Fmi parla tramite il suo vicino all’angolo con la 15sima strada (il Tesoro). Sinora, silenzio assoluto. Almeno ufficialmente. In secondo luogo, ove il negoziato, di forma e di sostanza, non fosse abbastanza complicato, su di esso si stanno accavallando questioni giudiziarie interne.



Venerdì scorso sono state presentate le candidature ufficiali: Christine Lagarde (ministro dell’Economia e delle Finanze francese) dall’Europa, Agustin Carstens (Governatore della Banca centrale messicana) da un gruppo di Stati dell’America Centrale e Meridionale, e Grigori Marchenko (Governatore della Banca centrale del Kazakistan) dalla Russia. Quest’ultimo sa di essere unicamente una candidatura di bandiera, senza possibilità di successo rispetto agli altri due contendenti, ma pur sempre un’utile merce di scambio nelle votazioni dei 24 (cinque dell’Ue) componenti del Consiglio d’amministrazione del Fmi.



Sempre venerdì scorso (a ragione del fuso orario, simultaneamente alla presentazione delle candidature) è arrivata la notizia che in Francia il Tribunale dei Ministri ha rinviato all’8 luglio la decisione sull’autorizzazione di un procedimento per abuso di potere nei confronti di Christina Lagarde per una complicata vicenda interna che riguarda un accordo extra-giudiziale tra il Crédit Lyonnais (controllato dal Tesoro francese) e l’imprenditore (e politico, prima parlamentare socialista poi sarkoziano) per la vendita del proprio pacchetto azionario nella multinazionale dell’abbigliamento sportivo Adidas. Se l’8 luglio, il Tribunale dei Ministri concederà l’equivalente di una autorizzazione a procedere, Madame Lagarde ha già annunciato che darà una procura completa all’avvocato Christopher Mennooh (dello studio Field Fisher Waterhouse) a rappresentarla in udienze che si annunciano numerose e intricate.

In che misura il rinvio della decisione sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Christine Lagarde influirà sulla decisione che il cda del Fmi deve prendere entro il 30 giugno? I componenti Ue del cda sostengono che le accuse nei confronti di Madame Lagarde sono così inconsistenti che la si può eleggere in tutta serenità. Tiepido, però, il britannico (sempre in stretto contatto con il collega americano); parla di un possibile rinvio di qualche settimana per attendere un chiarimento.

Nel frattempo, Christine Lagarde gira il mondo in piena campagna elettorale per raccogliere supporto tra emergenti di peso. Non mancano i colpi bassi: quali le insinuazioni che Agustin Carstens (che ha studiato a Chicago) sarebbe un liberista estremista, poco consono in una fase in cui, piaccia o no, l’intervento pubblico sta “tornando di moda”. Grigori Marchenko ha, nel frattempo, indossato la casacca della “merce di scambio”.

Le cene “gastro-negoziali” si succedono, specialmente nelle salette riservate del Cosmos Club e dell’International Club. Un alto funzionario del Tesoro Usa prefigura una soluzione che può sembrare complessa ma che ha una sua logica. L’elezione di Madame Lagarde entro il 30 giugno per non darla vinta al “giustizialismo francese” e per ottenere dall’Ue uno scambio importante: supporto dell’Europa all’elezione tra un anno di Hillary Clinton alla Presidenza della Banca mondiale (Obama non la vuole tra le scatole nelle nuove presidenziali); impegno dell’Europa a una revisione drastica delle quote in conto capitale (e dei diritti di voto) sia al Fmi sia alla Banca mondiale da completarsi nei prossimi cinque anni.

Numerosi “emergenti” condividerebbero questo approccio che farebbe vincere all’Ue una battaglia, ridimensionandola, però, per sempre.