Può piacere o non piacere, ma la regola, ai tempi dell’economia globale, non ammette deroghe: a comandare sono più i mercati finanziari che non i Parlamenti dei singoli Stati. È una novità sgradevole, su cui già ci sono fiumi di inchiostro, ma che, vista con altri occhi, non è poi così nuova.
Per almeno cinquant’anni, infatti, i Paesi emergenti (quelli che un tempo erano definiti Terzo Mondo) hanno dovuto chinare il capo di fronte ai diktat del Fmi e della Banca Mondiale, pena la bancarotta economica. Oggi, per effetto della crisi globale che ha messo in discussione la leadership dell’Occidente, a dover subire le regole dei mercati senza poter vivere al di sopra dei propri mezzi, è la Vecchia Europa. Italia, già terra della dolce vita, compresa.
È il caso di inquadrare in questa cornice sia la manovra finanziaria che entro il 2014 dovrà metterci al passo dei canoni della stabilità finanziaria che la tanto reclamata riforma del fisco. Altrimenti si rischia di fare un esercizio sterile: una qualsiasi mossa mal digerita dagli operatori finanziari potrebbe far schizzare il differenziale tra i titoli del debito pubblico italiano e i Bund tedeschi ben oltre la soglia, già assai allarmante, dei 200 punti base di questi giorni. In tal caso, ogni possibile sforzo risulterebbe vano in partenza..
Il problema, insomma, è il seguente: come arrivare al pareggio di bilancio entro il 2014? Già così è un quesito quasi impossibile. Ma, tanto per complicare il quadro, aggiungiamo due passaggi. Bisogna riuscirci senza deprimere ulteriormente gli investimenti o qualsiasi altro ingrediente necessario per lo sviluppo. Non solo. Bisogna combinare questi sforzi con una riforma del fisco che alleggerisca la pressione sui contribuenti: diciamo che servono subito altri 15-20 miliardi.
Come fare? Per prima cosa, come in ogni famiglia che si rispetti, si tratta di capire cosa e di quanto si può tagliare, dopo essersi procurati un paio di robusti tappi per le orecchie per non ascoltare lai e lamenti che già si levano dal fronte della “società civile” che chiede spese ordinarie e straordinarie.
Tagliare, come sa ogni massaia, si può sempre. In Italia, secondo i conti del Cerm, sarebbe sufficiente che la spesa sanitaria delle Regioni avesse le stesse performances della regione Umbria, eletta come “benchmark” per la sua posizione mediana tra Nord e Sud, per generare risparmi per 12 miliardi annui, In particolare, sarebbe sufficiente che cinque regioni (Campania, Sicilia, Puglia, Calabria e Lazio) si mettessero al passo per ricavare risparmi per 9,4 miliardi. Senza per questo incidere sulle prestazioni, se si pensa che lo standard delle regioni incriminate è largamente inferiore alla media della Sanità italiana, che gode di eccellente stima.
L’esempio Sanità è solo uno fra i tanti. La macchina dello Stato amministra 784 miliardi all’anno, di cui più della metà, il 50,6% per l’esattezza, finisce in salari, stipendi, pensioni e interessi sul debito pubblico (70,1 miliardi, pari al 4,5% del Pil). Purtroppo, sarà necessario incidere su una o più di queste voci, ben sapendo che la spesa per interessi può scendere, congiuntura dei mercati permettendo, solo per effetto di una condotta virtuosa.
Difficile, poi, colpire le spese in conto capitale, ormai scese del 18,5% e che semmai necessitano di un urgente rilancio. Non restano, in sostanza, che gli stipendi e i consumi intermedi (263,505 miliardi), per cui si profila un nuovo blocco nel 2013, quando si sarebbe dovuta riaprire la trattativa per i rinnovi triennali. Altra voce calda: la previdenza, ovvero la voce più elevata con un peso di 298,1 miliardi. Raffaele Bonanni, leader della Cisl, ha già messo le mani avanti definendo “irreale” l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni anche nel settore privato, dopo il pubblico impiego. Ma è facile prevedere che si andrà, prima o poi, in quella direzione.
Così come si dovrà intervenite con il bisturi sul 48% della spesa totale, oggi amministrata dalle Regioni. Va detto che in questi anni i capitoli di spesa rimasti in mano all’autorità centrale (Difesa, Giustizia, Pubblica Istruzione) hanno subito tagli anche feroci. Assai meno è avvenuto in una certa periferia. La ricetta, insomma, non può che passare da: 1) un giro di vite a caccia degli sprechi che si annidano nei consumi intermedi; 2) il congelamento degli stipendi del pubblico impiego; 3) interventi sull’età pensionabile.
Può funzionare questa ricetta? Hanno senso questi sacrifici? Sì, se i tagli serviranno in parte a ridurre l’ammontare del debito, in parte ad alimentare voci di spesa più produttive, in grado di ridare ossigeno a materie come: infrastrutture, ricerca, formazione, scuola e così via. Sì, se la politica dei tagli saprà essere il più possibile selettiva e non lineare, intervenendo sulle numerose sacche di inefficienza. In questo senso, la filosofia del taglio del debito finisce con il combaciare con una politica fiscale più elastica o, se preferite, meno vessatoria. Una politica basata sull’introduzione dei conflitti di interessi tra consumatori e venditori assieme ad accertamenti fatti in modo serio.
Belle parole, rischiano di rappresentare un libro dei sogni. Anche perché l’interesse “particolare” delle forze politiche va in un’altra direzione. Ma la svolta non è impossibile. Purché ci si metta in testa che, come diceva Milton Fridman, “nessun pasto su questa terra è gratis”. Prima o poi, insomma, il conto arriva.