Resta aperta la questione, in evidenza la scorsa settimana, se l’Italia si stia impoverendo o meno. I dati Istat, che hanno registrato un lieve incremento della popolazione a rischio di entrare nell’area di povertà, sono infatti diventati oggetto di interpretazioni partitiche, poi prevalenti nelle cronache, che ne hanno oscurato il significato. I governativi hanno sostenuto che il problema non c’è, gli “anti” lo hanno amplificato evocando una situazione tragica. Ambedue hanno sbagliato.
L’Italia, con evidenza statistica dai primi anni 90, ma per cause strutturali risalenti agli anni 70, è in lento declino economico. Questa tendenza non ha ancora intaccato la configurazione della società italiana, evoluta negli anni della grande crescita post-bellica, caratterizzata da due terzi della popolazione fatta da “ricchi” (cioè con capacità di risparmio dopo aver soddisfatto i bisogni primari) e da un terzo di “poveri”. Ma ha modificato il destino probabile del 30% meno abbiente. Invece di poter sperare di accedere alla società del capitalismo di massa, per questi è più probabile nel futuro prossimo la stagnazione dei redditi o perfino il loro peggioramento.
I dati Istat, in sintesi, hanno registrato la continuità di questa tendenza. Cosa significa? Che la nostra società resta, in maggioranza, ricca, ma si sta lentamente spaccando tra ricchi e poveri. Altri dati mostrano che i ricchi non stanno diventando più ricchi e ciò segnala con chiarezza che il modello economico italiano non è più in grado di fare sviluppo, immagine confermata dai dati di crescita stagnante dai primi anni 90: l’incremento del Pil in Italia tende ad essere metà di quello medio europeo, un quarto di quello americano e un ottavo di quello medio delle economie emergenti. Segno evidente di un vincolo strutturale alla crescita.
In parte ciò è dovuto alla stagnazione demografica (più figli sono la base primaria per più Pil). Ma in parte maggiore a un decremento di opportunità lavorative qualificate e ben remunerate, combinate con salari netti troppo bassi. In sintesi, il modello di welfare applicato in Italia negli anni 70 soffoca la crescita del mercato interno, caricandolo di troppe tasse e vincoli. Il difetto di crescita del modello è stato fino a poco tempo fa bilanciato dalla spesa pubblica in deficit; il reddito insufficiente dei lavoratori autonomi è stato bilanciato dall’evasione fiscale e quello dei salariati da incrementi contrattuali.
Ora queste tre valvole di ricchezza che hanno attutito la crisi del modello sono chiuse. La priorità del rigore impedirà il ricorso alla spesa in deficit, aumenterà la repressione di polizia fiscale e manterrà fermi i salari pubblici. La poca crescita (e produttività) manterrà in tensione negativa il mercato del lavoro, inibendo aumenti nei salari dei dipendenti nel settore privato. La loro busta paga resterà carica di tasse lasciando uno spazio decrescente (per l’inflazione) per il risparmio e i consumi. Tale situazione porta ad una accelerazione del declino/impoverimento finora lento.
È difficile separare l’effetto di impoverimento contingente dovuto alla crisi del 2008 da quello causato dal modello. Ma è ovvio che l’impatto della crisi su un modello che non funziona sia causa di una ripresa molto lenta e di danni strutturali, tra i quali la perdita definitiva di parti della capacità industriali.
In conclusione, il declino non è ancora tale da compromettere la capacità dell’economia italiana di tornare allo sviluppo, ma senza un cambio di modello ci saranno sempre meno risorse per contrastare l’impoverimento. Questa è la realtà.