«Ridisegneremo l’impianto delle aliquote, vi saranno meno aliquote, solo tre rispetto alle attuali cinque, e più basse». Con queste parole il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ieri al Senato ha rilanciato il progetto di riforma fiscale allo studio del governo.

«Far pagare meno tasse ai ricchi, attraverso una riduzione delle aliquote più alte, serve allo sviluppo economico, perché favorisce l’accumulazione e l’impresa. Ma se aiutiamo l’economia con il quoziente familiare, i cittadini lo capiranno di più e ci saranno anche vantaggi di lungo periodo», è il commento sintetico di Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze, che in questa intervista ci spiega su cosa dovrebbe puntare una riforma fiscale per essere efficace, poco costosa e realizzabile in breve tempo.



Perché il quoziente familiare è così importante?

Per due ragioni. La prima la potremmo definire di ordine sociale. Attualmente, esiste una no tax area per i redditi fino a 7.500 euro; quelli sino a 15.000 euro pagano il 23% sulla parte eccedente i 7.500; sopra i 15.000, per lo scaglione fino a 28.000, si paga il 27%; per lo scaglione successivo fra 28.000 e 55.000 l’aliquota è il 38%; per lo scaglione fra 55.000 e 75.000 si passa al 41%; infine, per il reddito eccedente si paga il 43%. Abbiamo quindi un’imposta personale sul reddito che ha un’incidenza notevole e che già a livelli modesti arriva a superare il 30%. Quando in una famiglia c’è un solo reddito, l’aliquota “morde” su quel reddito per l’intera famiglia. Quando ci sono dei bambini, il “morso” è ancora più intenso e la detrazione per i figli a carico non riesce in ogni caso a toccare l’aliquota marginale, quella cioè che aumenta al crescere del reddito. Invece, il quoziente familiare agisce proprio sull’aliquota marginale.



In che modo?

Nel caso di una famiglia senza figli, la somma dei due redditi viene divisa per due. In questo caso abbiamo una situazione di “neutralità”, che però crea vantaggi quando i due coniugi hanno redditi molto differenti, eliminando l’aliquota marginale di quello più alto. In una famiglia monoreddito, questo discorso vale ancora di più. E nel caso di famiglie con tre figli possiamo anche arrivare in una situazione in cui un reddito che prima era tassato al 38% passa all’aliquota del 23%. Questo vuol dire permettere a una famiglia numerosa di crescere dignitosamente i propri figli, consentendo magari alla madre di lavorare meno, guadagnando un po’ meno, per allevarli. Attraverso il quoziente, quindi, è possibile attenuare in modo rilevante la progressività che “morde” i redditi modesti. Inoltre, si ottiene quella riduzione del carico fiscale che ultimamente si auspica mediante un sistema di aliquote più miti a livello superiore, in un modo che però è funzionale ai bisogni della famiglia, non solo al reddito.



Qual è la seconda ragione per cui il quoziente familiare è importante?

È un motivo di ordine economico e demografico di lungo periodo. In Italia, infatti, abbiamo uno scarso aumento dell’economia causato da una bassa crescita demografica; anzi, senza considerare gli immigrati, abbiamo una decrescita demografica. Questo è molto grave, perché vuol dire che in futuro si costruiranno meno case per le nuove famiglie, che avremo meno lavoratori per sostenere i pensionati e gli anziani bisognosi di cure. Inoltre, se la popolazione regredisce le città si “spengono”, ne risente quindi anche l’urbanistica, l’arte, la creatività del Paese. Stiamo, in definitiva, creando una società squilibrata. Quindi è importantissimo a livello economico e culturale che ci siano in Italia famiglie con più di due figli, così da evitare la decrescita demografica. Ecco allora che nella politica di lungo termine quello del quoziente familiare è il migliore investimento, perché punta sul capitale umano.

 

Il quoziente familiare ha ricevuto però delle critiche.

 

Io ho sentito dire che sarebbe regressivo, perché favorisce i redditi più alti. Si tratta, però, di una scemenza: non è regressivo, ma è progressivo, nel senso che non favorisce i ricchi, ma favorisce i bisogni, cioè si adatta alla capacità contributiva. Il reddito, infatti, non interessa in quanto tale, ma in funzione dei bisogni della famiglia. Mi sembra quindi che la risposta in termini di giustizia sociale del quoziente familiare sia molto più robusta di una proposta che voglia limitare le aliquote per i redditi più alti, specie in un periodo che richiede sacrifici. Senza dimenticare che i redditi alti compaiono poco nelle statistiche. Quindi riescono già a sfuggire in gran parte alla tassazione, se poi gli facciamo anche dei favori…

 

In passato qualcuno ha anche criticato il fatto che il quoziente favorisce la famiglie con un solo reddito elevato.

Questo è vero, ma non possiamo rinunciare a una tale riforma per questo inconveniente. Anche perché con il sistema attuale c’è uno squilibrio ancora peggiore, che deriva dal fatto che in una famiglia con due redditi medio-alti si è tassati di meno che in una monoreddito. Da noi sono alti i redditi sopra i 50.000 euro, che possono essere quelli di un buon professionista, di un bravo medico o di un professore universitario. Famiglie monoreddito di questo tipo in Italia vengono tartassate, mica vivono tra i “lussi”. Anche il problema dei redditi alti che c’è in Italia credo che possa essere risolto in maniera più comprensibile per i cittadini attraverso il quoziente familiare piuttosto che con un taglio delle aliquote. Questa riforma è però avversata dalla maggior parte della sinistra per una ragione molto semplice: i benefici riguarderebbero solo le famiglie regolarmente sposate e non le coppie di fatto. Personalmente ritengo che questo sia un fattore positivo. Certo, a chi ha una teoria di libertà etica questo non piace, però per avere un’economia seria è meglio avere famiglie regolarmente sposate che non “coppie vaganti”.

 

Eppure, Professore, il quoziente familiare era nel programma di governo dell’attuale maggioranza, ma finora non è stato introdotto. Questa può essere, secondo lei, la volta buona?

 

La megariforma fiscale di Tremonti si dice che possa costare 80 miliardi di euro, mentre il quoziente familiare ben fatto costa meno di un punto di Pil, cioè circa 8-10 miliardi. Quindi è fattibile adesso, e questo è molto importante. La copertura potrebbe essere finanziabile con un taglio degli sgravi ingiustificati in quella selva di esoneri del nostro sistema tributario che vale circa 150 miliardi. Poi se si vuole fare anche una riforma strutturale tributaria con tre aliquote può darsi che vada bene, ma diciamo che il quoziente familiare risolve più problemi e costa meno.

 

Gli “avvertimenti” delle agenzie di rating e delle istituzioni internazionali sembrano sconsigliare un calo delle tasse in Italia. D’altro canto, però, una riduzione fiscale può favorire la crescita economica che darebbe anche più senso al rigore sui conti pubblici. Come ne usciamo?

 

Il quoziente familiare non mette in contrasto rigore e sviluppo. Da una parte, infatti, pone delle basi per favorire una crescita di lungo periodo, dall’altra può anche ottenere un consenso sociale che può aiutare la prosecuzione della politica di rigore. Non va però dimenticato che le politiche di sviluppo hanno bisogno di varie altre misure, alcune delle quali non comportano costi e, anzi, portano benefici, come i processi di liberalizzazione. Inoltre, il finanziamento del quoziente attraverso l’eliminazione di esoneri non necessari o iniqui sarebbe un’occasione per migliorare il sistema tributario.

 

Per il momento si parla però di uno spostamento della tassazione dalle persone alle cose. Cosa ne pensa?

Da un punto di vista tecnico-scientifico ciò è quasi incomprensibile, perché le cose non hanno capacità contributiva, quindi non capisco bene cosa vuol dire. È una frase ambigua e per alcuni potrebbe voler dire tassare anche i patrimoni e non solo i consumi. Spostare le imposte dalle persone alle cose è quindi sbagliato per un economista, perché sono le persone che pagano le imposte e non le cose. Se le imposte sul reddito hanno delle incidenze negative possono essere modificate mediante principi di capacità contributiva (come nel caso del quoziente familiare) o di produttività (come nel caso di riduzione dell’imposta per i salari di produttività). Ci sono poi le imposte ad aliquota proporzionale (cedolari secche) per ridurre la pressione fiscale sui redditi derivanti dagli immobili e dalle rendite finanziarie. Per quel che riguarda la tassazione sui consumi, in Italia abbiamo un’evasione dell’Iva che è al 50%, oltre al fatto che l’aliquota del 4% riguarda anche prodotti che non si capisce perché debbano godere di un’imposta così bassa. È l’Iva quindi che funziona male e andrebbe ristrutturata.

 

Qual è, secondo lei, il modo migliore e realistico per far scendere la pressione fiscale in Italia?

 

La pressione fiscale cala nella misura in cui cresce il reddito, perché le nostre spese pubbliche difficilmente possono essere ridotte se il reddito non cresce, in quanto in gran parte sono di natura sociale e non comprimibili: basti pensare che abbiamo una spesa sanitaria intorno al 5% del Pil e al 14% per le pensioni. Quindi, se il Pil cresce queste spese, che sono funzione dei bisogni della popolazione, possono essere limitate e allora la pressione fiscale si può ridurre. Se vogliamo tenerci l’attuale sistema sociale, quindi, la questione vera è quella della crescita economica. Penso che il problema della pressione fiscale sia di crescita economica e di imposte che non la favoriscono. In questo senso il quoziente potrebbe nel lungo termine aiutare a migliorare la situazione. A questo si devono aggiungere riduzioni di imposte sui redditi di impresa e sui salari di produttività, di oneri e contributi sociali per il lavoro giovanile, ecc: tutte misure con cui il sistema tributario si può adattare alla crescita.

 

(Lorenzo Torrisi)

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