La Federal Reserve rivede al ribasso le stime di crescita per il 2011/12. La frenata della Cina, per ora, si è tradotta in ben poca cosa. Ma, prima o poi, le misure aggressive dell’autorità monetaria (sei aumenti consecutivi della riserva obbligatoria delle banche negli ultimi sei mesi) produrrà i suoi effetti.
La crescita europea ricalca lo schema dei polli di Trilussa: la locomotiva tedesca cresce a ritmi sensazionali, il sud Europa segna il passo. In generale, l’economia globale arranca più del previsto, cosa che sta scombinando i piani di rientro dall’eccesso di liquidità che la Federal Reserve, almeno fino ad aprile, pensava di mettere in cantiere con l’estate.
Al contrario, nonostante gli eccessi speculativi sui mercati alimentati dal denaro a basso costo e nessun controllo, Bernanke non può stringere i cordoni della Borsa. Anzi, ci avvete Bill Gross, il più importante gestore al mondo sui mercati obbligazionari, è probabile che ad agosto, in occasione del meeting dei governatori delle banche centrali a Jackson Hole, Bernanke annunci un nuovo piano di stimoli per l’economia.
Molto, avverte Jim O’Neill di Goldman Sachs, dipenderà dalla capacità di reazione di alcune società giapponesi, tanto ignote anche al pubblico degli addetti ai lavori quanto vitali per l’industria. La Renesas, ad esempio, ovvero un produttore di chip per l’auto che serve quasi tutti i produttori a quattro ruote del pianeta. I problemi che hanno seriamente rallentato la produzione dell’impianto di Naka hanno provocato la frenata dell’auto in Usa e in Europa. Ma, ci consola O’Neill, nel Paese del Sol Levante la ricostruzione degli impianti procede a ritmi spettacolari e presto se ne vedranno gli effetti. Quasi ovunque.
L’Italia, che dal Duemila in poi sembra che abbia registrato il peggior tasso di crescita del pianeta (con l’eccezione d Zimbabwe e Haiti) non perde l’occasione per ridurre la sua velocità di marcia. In questa cornice in grigioscuro del mondo nel quinto anno della Grande Crisi che ha preso il via nell’estate del 2007 non stupisce che l’Italia, al solito, faccia fatica a mantenere un’andatura di marcia appena accettabile. Dalla stima iniziale dell’1,1% di crescita per il 2011, siamo già scesi, secondo il Centro studi Confindustria allo 0,9%. Ma non si tratta di un rallentamento congiunturale, in sintonia con l’economia mondo: il Bel Paese si sta avvitando su se stesso, al punto che “in assenza di riforme strutturali” la crescita rischia addirittura di dimezzarsi a un modesto 0,6%.
Insomma, non basta la valvola di sfogo dell’export su cui fa conto l’industria italiana che trae profitto dalla corsa della locomotiva tedesca. Una gigantesca cappa di incertezza, drogata dalla paura di possibili se non probabili “sberle” fiscali per tener fede alle promesse europee (altro che sgravi…), incide sui consumi delle famiglie, mentre i ritardi nei pagamenti, soprattutto sul fronte pubblico, frena, se non paralizza, buona parte della piccola industria a partire dall’edilizia. Così facendo, però, per paradosso s’allontana l’aggancio con l’Europa.
Secondo i calcoli di Banca d’Italia, infatti, per rispettare senza particolari sacrifici l’appuntamento con il pareggio di bilancio nel 2014, sarebbe sufficiente che l’Italia crescesse al 2% annuo, cosa che richiede scelte in grado di “rafforzare la fiducia di famiglie e imprese e innalzare le rispettive propensioni a consumare e investire”. Ovvero, delle due l’una. O si investe in quelli che Confindustria chiama i “campi da dissodare” (semplificazione, realizzazione di opere pubbliche, liberalizzazioni e apertura del mercato in molti servizi, più formazione, efficienza della pubblica amministrazione, contrasto all’evasione, riforma fiscale) oppure in un futuro non tanto lontano sarà necessario uno shock formato ‘92.
Stavolta non prenderà, forse, la forma di un prelievo forzoso sui depositi bancari (“lo scippo”, come lo definì il suo autore Giuliano Amato), ma non si limiterà di sicuro a far pagare un piccolo prelievo forzoso ai proprietari di yacht, come lascia intendere lo stesso Amato. O si guadagna di più, insomma, o sarà necessario pagare di più. Anche perché con i tempi che corrono non è sensato sperare in un consenso politico sull’unica riforma che potrebbe far tornare il Paese a crescere: un taglio strutturale della spesa pubblica. E allora prepariamoci a indossare l’elmetto.
In settimana, un professore della Stern University, Edward Altman., ha spiegato sulla base di un elavorato meccanismo econometrico, che l’Italia è il prossimo “pilastro” dell’area euro che potrebbe cadere sotto i colpi della speculazione che, al solito, preferisce i quattrini facili che si fanno giocando contro i Btp piuttosto che il finanziamento dell’economia reale. Le ragioni? Oltre all’elevato debito pubblico e al basso tasso di crescita, Altman mette il dito sulla piaga della scarsa solidità patrimoniale delle imprese: una nuova caduta delle quotazioni azionarie metterebbe a serio rischio una parte consistente del made in Italy che sta in piedi solo grazie al paracadute delle banche (a loro volta garantite dai pegni azionari).
Non si tratta di fare inutile allarmismo. Ma la situazione è difficile. E non se ne viene fuori se non si riscopre un obiettivo comune su cui far convergere un’ampia maggioranza di interessi dei cittadini accantonando le questioni più futili che, tra inchieste più o meno “gossipare” o proposte bizzarre come il trasloco dei ministeri, occupano le prime 14-15 pagine dei quotidiani nostrani: la politica urlata, da troppo tempo, nasconde il vuoto politico.