Per capire meglio la bozza di “manovra” che il governo comincerà ad esaminare da martedì in poi è utile ricordare gli impegni presi dall’Italia in sede europea in materia di riequilibrio della finanza pubblica: (a) raggiungimento del pareggio di bilancio annuale dello Stato, cioè deficit zero o quasi, entro il 2014; (b) riduzione del debito pubblico complessivo da quasi il 120% del Pil attuale al 60% in 20 anni. Il primo impegno è precisato e formale. Il secondo, se ho capito bene, non è stato ancora formalizzato come obbligazione da parte dell’Italia e tenuto quasi nascosto per l’imbarazzo che produce.
Il debito pubblico corrente, infatti, misurato qualche giorno fa, è di 1.890 miliardi. Grossolanamente, bisognerebbe dimezzarlo riducendolo di 900 miliardi in un ventennio, trovando ogni anno 45 miliardi per abbatterne una parte. Scenario da incubo. Ma proprio per addolcire il secondo impegno, l’Italia dovrà dimostrare di voler rispettare il primo, anche per attutirlo, per esempio, spostando al 2016 il pareggio. Ora il deficit annuo viaggia attorno al 4% del Pil. Il Pil cresce pochissimo, attorno all’1%, e migliorerà di poco nel prossimo futuro.
Il governo ha due scelte per ridurre il deficit in tre anni, ambedue vincolate dal requisito di pareggio del bilancio: o tenta di alzare la crescita via detassazione stimolativa oppure, semplicemente, taglia la spesa pubblica di 4 punti di Pil, equivalenti a circa 60 miliardi di euro, entro il 2014-16. La bozza presentata indica che è stata fatta la seconda scelta, cioè che il governo teme di non riuscire a ridurre le tasse ed allo stesso mantenere i saldi di bilancio. Con un ritmo di tagli che li rende piccoli nel 2012, lasciando i più grossi e traumatici nel 2014, con un megataglio finale nel 2014.
Valutazione. Se tolgo dal sistema economico 60 miliardi di euro in tre anni, smettendo di reperirli con indebitamento, e non compenso tale riduzione creando ricchezza via crescita dell’economia, alla fine non solo renderò più povera la nazione, ma anche fallirò nel raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio perché il gettito fiscale sarà minore.
Per inciso, questa è l’analisi che ha portato le agenzie di “rating” a ridurre la fiducia prospettica sul debito italiano. Possibile che il governo non lo sappia? No, lo sa benissimo. Ma evidentemente non ritiene di avere il consenso sufficiente per fare un’operazione combinata di rigore e sviluppo che implica azioni di cambiamento del modello e di vendita del patrimonio per ridurre il debito, spesso da me invocate e dettagliate. Quindi adotterà una politica di tagli senza crescita. Il gettito in meno? Lo compenserà aumentando la repressione fiscale. In sintesi, la linea del governo è: tagliare spesa, spostare le tasse senza ridurle, bilanciare il minor gettito dovuto alla combinazione tra bassa crescita e deflazione da rigore via recupero dell’evasione.
Con questa impostazione il governo avrà non troppa opposizione dalla sinistra e dai sindacati moderati perché, in sostanza, offrirà il seguente scambio: se mi lasciate fare qualche taglio, manterrò in cambio il modello assistenzialista-statalista caro alla sinistra e a tutti gli interessi parassitari. Da un lato, è bene che si taglino un po’ di sprechi nelle spese per la politica, nel sistema sanitario con costi fuori controllo, ecc. Dall’altro, tale politica lima il modello inefficiente per renderlo sostenibile, ma non cambiandolo ne perpetua l’impatto depressivo sulla crescita. E ciò porta l’Italia verso un destino di declino, pur lento, mantenendola vulnerabile ad incidenti sul debito. Buon impoverimento.