La scaramanzia è certamente sintomo di ignoranza, ma, per una volta, cari lettori, mettete mano agli amuleti. Così parlò, infatti, George Soros, pescecane finanziario travestito da filantropo, durante un congresso a Vienna: «Il sistema finanziario rimane estremamente vulnerabile. Siamo in prossimità di un collasso economico che nascerà dalla Grecia e si diffonderà molto velocemente».
In effetti, questa volta non avevamo bisogno delle doti da chiromante dei mercati di Soros per capire che il tempo sta scadendo: ieri il decennale irlandese pagava un rendimento dell’12,1%, quello portoghese dell’11,65% e lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi toccava il record di 222 punti base. Insomma, il contagio greco è già cominciato, nonostante il voto parlamentare sul pacchetto di austerity del governo di Atene si terrà soltanto questa sera. I leader europei, almeno quelli dotati di un minimo di realismo, ne hanno preso atto: il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, domenica ha dichiarato alla stampa che «l’Europa si sta preparando al peggio».
Vaticina ancora George Soros: «Ci sono correzioni fondamentali da apportare, prima delle quali quella riguardo la non copertura per l’euro da parte di un’unione politica o di un Tesoro condiviso. Questa situazione fa in modo che se qualcosa va storto in una delle nazioni che partecipano all’eurozona, non c’è capacità di correzione. È probabilmente inevitabile che alle nazioni altamente indebitate verrà fornita una scorciatoia per uscire dall’euro».
Insomma, si rimette mano ai Trattati per garantire un meccanismo di uscita che non mandi all’aria l’intero castello dell’eurozona. Prepariamoci, quindi, all’oro in rally verso quota 2.000 dollari l’oncia, visto che quella aurea è stata la moneta più forte e performante degli ultimi anni contro tutte le altre valute, compreso il franco svizzero. Il perché è presto detto: il principale vantaggio dell’oro, infatti, è che protegge dalla svalutazione valutaria, situazione che saremo destinati a conoscere nelle prossime settimane. Altro che bolla, quindi: basti vedere la crescente richiesta d’oro in Grecia degli ultimi giorni, una fame aurea che presto contagerà gli altri paesi periferici sulla scorta del timore contagio per il default ellenico.
Il ritorno al golden standard è alle porte: non a caso la Cina ha aumentato le proprie riserve e la Russia sta ammassando oro nei caveau della Banca centrale per legarvi il rublo, sperando di tramutarlo in questo modo nella valuta più sicura al mondo (visto che, come di fatto confermato dal congressista repubblicano, Ron Paul, nella sua richiesta di chiarimento alla Fed, l’oro della Federal Reserve stipato a Fort Knox è soltanto tungsteno ricoperto da un sottilissimo strato aureo. I contratti aurei della Fed, infatti, sono del 1934!).
Ecco che la decisione di George Soros di vendere il suo Etf sull’oro trova un senso: non l’imminente scoppio della bolla con ritracciamento in area 1200 dollari l’oncia, ma solo un business molto remunerativo con cui fare cassa, visto che il Soros Fund Management mantiene salde e ampie partecipazioni nel settore minerario legato all’oro, posizioni che a differenza di un Etf non devono essere dichiarate alla Sec. Insomma, siamo alla vigilia di una nuova recessione globale. A confermarlo, oltre i dati di cui parliamo ormai da settimane, anche l’andamento laterale del Baltic dry index (Bdi), mai ripresosi dalla caduta dai massimi del 2007-2008.
Questo indice, che riflette i costi dei noli marittimi, viaggia a quota 1.423 punti, un livello molto basso, anche se distante dai minimi assoluti: i riferimenti tecnici più importanti per il Bdi sono infatti il minimo assoluto di 663 del 12 maggio 2008 e i massimi del 2007 e dei primi del 2008 in area 11.000 punti. Dai minimi l’indice è riuscito a riportarsi in area 4.660 nel novembre 2009, per poi tornare a scendere gradualmente. Ciò che sorprende non pochi analisti è infatti il crollo dell’indice dai massimi del 2008, senza che ci sia poi stata un’effettiva ripresa: in parole povere, cari lettori, questa è la spiegazione della grande bugia spacciata dalla Fed, dal Fmi, dalla Banca mondiale, dalla Bce ai mercati. Ovvero, non c’è mai stata ripresa e i rallies borsistici sono stati resi possibili artificialmente solo dai dollari al ciclostile regalati da Ben Bernanke a chiunque volesse mantenere falsamente alto l’indice S&P’s 500.
Per capire il perché, torniamo un attimo alla natura di questo indice. Il Baltic dry index è un indice dei noli marittimi basato sul costo del trasporto di merci non liquide e sfuse, come carbone, ferro e grano. Gli analisti lo seguono perché ritengono che si tratti di un buon anticipatore dei movimenti delle materie prime, visto che un aumento del costo del trasporto dovrebbe essere in grado di confermare che l’aumento del prezzo delle materie prime non è semplicemente dovuto a fattori speculativi. Il perché è presto detto e di facile intuizione: una quantità preponderante di manufatti è trasportata su battelli verso la destinazione finale, quindi un aumento dei tassi di trasporto in genere viene considerato come un indicatore di forte domanda. Così non è.
E il peggio, paradossalmente, deve ancora arrivare, poiché in contemporanea con il default greco terminerà anche il secondo ciclo di allentamento quantitativo della Fed (QE2), fatto che per l’analista di Societe Generale, Patrick Legland, porterà con sé un altro periodo di deflazione per l’economia Usa e il collasso della bolla delle materie prime, oro e argento escluse. Prepariamoci, quindi, a un terzo trimestre da incubo, sia per le Borse che per le commodities, visto che tra due giorni, quando il QE2 terminerà ufficialmente, verrà a mancare il fiume di denaro che finora aveva mantenuto alle stelle i prezzi delle materie prime.
E, per aggiungere danno a danno, nell’arco di un mese, Washington dovrà trovare la quadra riguardo l’innalzamento del tetto di indebitamento, pena un default tecnico degli Usa a partire dal 2 agosto prossimo. Già ora gli Stati Uniti stanno mettendo mano ai fondi pensione federali per pagare interessi e cedole obbligazionarie, ma il pericolo maggiore sta nell’atteggiamento di molti Repubblicani, convinti della sostenibilità di un default di breve periodo se questo porterà con sé radicali tagli al deficit di budget.
Non la pensano così a Wall Street, spaventati dal combinato di fine QE2 e ulteriore instabilità sui mercati data dal contemporaneo default greco e quasi default Usa. Come uscire da questa situazione di potenziale armageddon? Bella domanda. La Cina si è detta preoccupata per un eventuale default greco e per il rischio sistemico che esso porterebbe con sé, quindi si è affrettata a confermare il suo impegno a sostenere l’eurozona attraverso il Fmi continuando a comprare obbligazioni dei paesi periferici. Un atto lodevole e interessato, che però fa un po’ a pugni con l’ultima mossa di Pechino a livello interno.
Due settimane fa, infatti, la Banca centrale cinese ha deciso per l’undicesima volta in un anno di aumentare la riserva obbligatoria per le banche che operano sul suo territorio: in pratica, dal 20 giugno, gli istituti di credito hanno dovuto richiamare liquidità concedendo meno prestiti o facendone rientrare altri. Una scelta dettata dalla necessità di combattere un’inflazione galoppante, ormai al 5,5% ma sostanziatasi in un colossale credit crunch interbancario che ha messo il turbo a tutti i tassi, sia a breve che a lungo termine. Detto fatto, il sistema produttivo e quello del credito immobiliare si vedono scaricati addosso i costi di una scelta tutta politica con implicazioni difficili da preventivare. Vi basti sapere che lo shibor a tre mesi, quello utilizzato dalle imprese per finanziarsi, è salito di colpo dal 4,80% al 6,38% e l’overnight è al 7,33%.
Ma non è solo il mercato interbancario cinese a trovarsi in una crisi di liquidità, visto che nelle ultime due settimane il tasso overnight europeo Eonia ha toccato il livello record dell’1,549%. Certo, i timori per la Grecia tendono a strozzare il mercato interbancario, con le banche molto meno propense a prestarsi soldi l’una con l’altra. Poi, di colpo, mercoledì scorso il tasso Eonia è crollato a 1,091%: come mai? Presto detto, nel corso della Main refinancing operation (Mro) della Bce tenutasi lo stesso giorno, le banche europee hanno preso in prestito da Francoforte 186,9 miliardi di euro a sette giorni al tasso fisso dell’1,25%. Ovvero, gli istituti dell’eurozona hanno preso in prestito 50 miliardi di più rispetto alla settimana precedente, il dato più alto dal mese di gennaio, quando erano le esposizioni a Irlanda e Portogallo a spaventare gli operatori.
Ma c’è di più, cioè il numero di banche che hanno fatto usufruito del Mro, salito a 353 dai 118 della settimana precedente e al livello più alto dal settembre 2008, quando furono 371 gli istituti che si misero in coda per attingere alla fonte della Bce. La quale, visto il numero di underwater bonds utilizzati come collaterale e i prestiti diretti verso le banche greche, rischia a sua volta l’insolvenza. Insomma, cortocircuito in vista e banche in trincea. Buona visione.