I conti sono presto fatti. Per mettersi in pari con le richieste dell’Unione europea, cioè abbassare il rapport debito/Pil dall’attuale livello del 120% al 60% nell’arco di vent’anni, sarebbe necessario passare dall’attuale pareggio del saldo primario, al netto degli interessi, a un avanzo del 5,8% sul Pil, con una correzione strutturale nell’ordine dei 100 miliardi annui. In questo modo, l’Italia potrebbe ripagare gli interessi (pari al 4,7% del Pil) e ridurre progressivamente lo stock del debito. Queste proiezioni, previste in uno studio di Banca Intesa, sono fatte sulla base di uno scenario realistico, ma non esaltante: un’inflazione annua del 2% e un tasso di cresita nell’ordine dello 0,9% annuo.
Ecco la cornice da cui muovere per valutare l’effettiva possibilità di ridurre le tasse. Da questi numeri emerge che l’impresa, pur non impossibile, è in sè assai ardua dal punto di vista contabile. Ma la partita è ancor più proibitiva se vista dal punto di vista politico. In questo caso, si sa, Silvio Berlusconi preme perché, probabilmente non a torto, individua nel fisco l’unica via d’uscita per invertire il trend elettorale. Ma Giulio Tremonti, che ha ormai separato le sue fortune politiche dalla sorte del premier, non ha alcuna intenzione di vanificare i successi ottenuti nel contenimento del disavanzo pubblico, fondamentali per evitare una “sorte greca” alle finanze pubbliche e private di casa nostra.
Non vanno trascurati, al proposito, neppure i tempi della riforma: Tremonti non intende fare passi azzardati prima dei vertici europei che dovranno certificare lo stato di salute dei paesi di Eurolandia. Berlusconi sa che, a questo punto della legislatura, anche un ritardo di poche settimane potrebbe rivelarsi per lui una vera e propria beffa: i primi benefici fiscali per i contribuenti rischiano di farsi sentire solo dopo la fine della legislatura, troppo tardi per il premier.
Passiamo al quadro. Nei giorni scorsi sul sito del ministero dell’Economia è ricomparso nella pagina di apertura il Libro Bianco del 1994, presentato da Tremonti alla vigilia della fine del primo governo Berlusconi. La “summa” della riforma stava tutta lì (e chissà dov’era finita in questi 17 anni…). Si tratta, in sintesi, di passare dalla tassazione delle persone a quella delle cose. Ovvero di alleviare il carico fiscale sul lavoro per trasferirlo sulle rendite e sui consumi. In parole povere, si riduce l’Irpef e si aumenta l’Iva.
Una strada battuta già da altri legislatori, anche se con percorsi e scelte diverse. Il “cuore” della riforma fiscale tedesca discussa e approvata da Gerhard Schroeder nel 2003/04 era basato, infatti, sull’aumento dell’Iva di tre punti percentuali (con una brusca contrazione dei consumi) a vantaggio di sgravi per le imprese. In questo modo il made in Germany ha accelerato il suo straordinario recupero di produttività a vantaggio dei profitti ma anche dei lavoratori: i sacrifici compiuti allora, infatti, sono alla base dell’aumento dell’occupazione e dei salari di oggi. In altri Paesi, ove governa il neoliberismo, il calo delle imposte è invece stato riservato ai più ricchi: a favorire l’accumulo di risorse e lo sviluppo sarebbe la leva del successo individuale che va premiato, non punito da imposte a vantaggio dei perdenti.
Nel caso italiano, l’impostazione di Tremonti prevede l’abbattimento delle prime aliquote fiscali, quelle al 23% e al 27% da finanziare con un aumento dell’Iva. Oppure, viste le furibonde reazioni in arrivo dai commercianti, attraverso un aumento dell’imposizione sulle rendite finanziarie al 20%. Una mossa praticabile, anche perché ormai gli acquisti di Bot da parte delle famiglie sono ben poca cosa (il 4% del totale, secondo l’ultima relazione della Banca d’Italia). Ma una mossa politicamente imbarazzante, visto che Berlusconi ha agitato in campagna elettorale lo spettro dell’aumento delle tasse sui Bot da parte della sinistra. Ma, sempre a proposito del premier, non si può trascurare l’obiettivo del quoziente familiare, riforma costosa in termini di gettito, ma che ha prodotto ottimi frutti in Francia. Insomma, non sarà facile far quadrare il cerchio, anche perché i margini di manovra sulle accise, uno dei cavali dibattaglia del Libro Bianco sono senz’altro ridotti.
Infine, sarebbbe riduttivo limitare la partta ai soli aspetti quantitativi: la riforma dal lato delle entrate rischia di non bastare se, nel frattempo, non viene ridotta e riqualificata la spesa, attraverso interventi mirati. Il governatore Mario Draghi, al proposito, ha appena fatto un elenco impietoso degli sprechi delle amministrazioni sia del Sud che del Nord, tanto per smentire la retorica leghista. È necessario, insomma, un colpo di reni all’insegna della coesione nazionale, un po’ sulla falsariga di quel grande patto sociale che ha permesso alla Germania di guadagnare venti punti percentuali di competitività sull’Italia dalla metà degli anni Novanta a oggi.
Non è un’impresa impossibile, purché dall’analisi, ampiamente condivisa, si passi alla terapia, senza anteporre l’interesse delle corporazioni al senso comune. O illudendosi che gli sgravi fiscali possano essere un “pasto gratis” da consumare subito, senza correggere nel frattempo la selva di detrazioni, deduzioni, elusioni e piccole o grandi evasioni che distinguono il Bel Paese dalle aree più civili. Non è così.
Semmai, la riforma del fisco può funzionare solo su un motore civile ben robusto, in grado di tradurre in potenza di giri il nuovo carburante. Altrimenti, si finisce con l’ingolfare la macchina.