Lo showdown abbia inizio. Ieri il Parlamento greco ha votato a favore del nuovo pacchetto di austerity concordato con la trojka e destinato a sbloccare i 12 miliardi di quinta tranche del prestito negoziato nella primavera dello scorso anno: una vittoria risicata che già oggi, però, potrebbe essere vanificata quando in aula si tornerà a votare riguardo le leggi attuative delle misure imposte ad Atene.
Ma al di là delle farse procedurali e delle pantomime sovrane, l’Europa, tra smentite e precisazioni, si prepara comunque al worst case scenario, ovvero al fatto che nonostante l’ok ellenico la situazione sia destinata a precipitare entro l’estate. Parliamo, ovviamente, del’ipotesi di roll-over sul 70% del debito greco con scadenza trentennale proposta dalla Francia per tutelare le banche esposte verso Atene, argomento su cui è intervenuto l’ormai ex presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, secondo il quale «il coinvolgimento della banche è responsabilità dei governi. Stiamo esaminando la proposta francese. Vedremo che risultati darà, il nostro esame procede».
La prima opzione prevede un finanziamento di 30 anni alla Grecia, in cui chi aderisce investirebbe un minimo del 70% dei proventi ricevuti in nuovi bond governativi greci. Questi avrebbero scadenza trentennale e sarebbero garantiti sull’intero capitale attraverso una società veicolo (Special purpose vehicle) collateralizzata da bond zero-coupon acquistati tra uno o più emittenti tripla-A sovrani, sovranazionali o europei.
La seconda opzione prevederebbe invece l’investimento di almeno il 90%, preferibilmente il 100%, dei proventi ricevuti in nuovi bond governativi greci a 5 anni con tasso del 5,5%. La bozza spiega che il piano è condizionato al via libera informale delle agenzie di rating e che non provocherebbe un downgrade a livello di default o simili per i bond greci esistenti e di nuova emissione.
Ricordando come la politica verso la Grecia «non è cambiata», Trichet ha dichiarato come sia stato di fondamentale importanza che Atene prenda «decisioni appropriate», riferendosi al voto parlamentare di ieri e di oggi. Sulla stessa linea, il Commissario agli Affari economici e monetari dell’Ue, Olli Rehn, secondo cui «l’unico modo per evitare un default immediato è che Atene dia il via libera al pacchetto di riforme concordato». Di più, Rehn ha sgombrato il campo dalle indiscrezioni filtrate nel tardo pomeriggio di lunedì attraverso l’agenzia Reuters, in base alle quali l’Ue starebbe già lavorando a un piano b in caso il Parlamento ellenico dicesse no e mandasse di fatto la situazione in una pericolosa impasse: «A coloro i quali speculano riguardo altre opzioni, dico chiaramente che non esiste un piano b per evitare il default».
Vero, falso? Ovviamente non sarebbe stato strategico per Rehn ammettere l’esistenza di un piano b prima del voto greco di ieri, visto che l’Ue ha stabilito una strategia di pressione diplomatica su Atene al limite del terrorismo politico affinché il pacchetto venga approvato, ma in molti cominciano ad avere più di un dubbio sulla reale fattibilità della proposta francese, primo fra i quali l’ad di Deutsche Bank, Ackermann, spaventato dall’ipotesi di contagio in caso di coinvolgimento del settore bancario nel salvataggio.
Due i motivi principali. Primo, il no del Parlamento greco avrebbe infatti inciso unicamente sulla quinta tranche del primo prestito, di fatto innescando il default poiché la Grecia non avrebbe in cassa soldi sufficienti per onorare i suoi debiti in scadenza. Secondo, la proposta francese rappresenta di fatto un piano b, visto che ha come principale finalità non quella di evitare il default, ma di scongiurare il rischio downgrade da parte delle società di rating attraverso un reprofoling del debito che non sia visto da Moody’s e soci come il classico “credit event” in grado di attivare la clausola di default (con il contraccolpo che questo avrebbe anche per le banche Usa, principali collocatrici di credit default swap ellenici verso gli istituti francesi e tedeschi). Ma c’è una terza ragione, ovvero il fatto che la proposta francese sia nulla più che la riproposizione di quel fallimento clamoroso che fu il cosiddetto Super Siv lanciato il 15 ottobre 2007 da Citigroup, JP Morgan Chase e Bank of America per calmierare gli effetti finanziari della crisi dei subprime.
Nato come master Liquidity Enhancement Cunduit (Mlec), ma subito ribattezzato Super Siv (Structured Investment Vehicle), il piano si riproponeva di garantire finanziamenti a breve termine ai Siv legati alle banche citate in precedenza per poter continuare la loro operatività nonostante la contrazione del credito e i timori degli investitori per l’esposizione dei Siv ai mutui subprime. Come la storia ci ha dimostrato, quello che veniva spacciato come un salvataggio a finanziamento privato di istituzioni finanziarie che scommettevano sul mercato immobiliare, si è tradotto in realtà come nient’altro che un ritardo nella risoluzione alla radice del problema.
Le parole di Trichet, poi, scomodano un ulteriore parallelo, visto che la nascita del Mlec fu sponsorizzata dall’allora segretario al Tesoro Usa, Henry Paulson, e dal sottosegretario alle Finanze interne, Robert K. Steel, nonostante le accuse di violazione della legislazione antitrust americana avanzata da alcuni analisti viste alcune posizione illiquide detenute dai Siv. Nonostante il 19 ottobre anche Wachovia e Fidelity si unirono al progetto, lo stesso fu ingloriosamente abbandonato il 21 dicembre del 2007 poiché definito «non necessario in questo momento».
Già ora per il piano c? Ma, cari lettori, dimentichiamoci per un attimo della Grecia e pensiamo all’Italia, inguaiata come non mai. L’altro ieri, per l’ennesimo giorno, i titoli bancari del Belpaese erano sotto assedio a Piazza Affari, soprattutto quelli impegnati o in odore di ricapitalizzazione. I timori per il voto del Parlamento greco sul pacchetto di austerity metteva certo il turbo alla speculazione, alimentata anche dalle minacce di downgrade già mosse da Moody’s, ma soprattutto da una strategia ben consolidata che viaggia spedita nelle dark pools.
Soprattutto Sigma X, la dark pool di Goldman Sachs, che per due giorni di fila ha visto come titoli maggiormente trattati Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Intesa San Paolo: insomma, a breve potrebbe partire un attacco in grande stile contro le principali istituzioni bancarie del nostro Paese. Il perché questo dato sia così importante è presto detto: stando a dati diffusi la scorsa settimana da Themis Trading, soltanto il 30% degli scambi globali avviene in Borse regolamentate, quindi la parte sostanziale del mercato opera dietro le quinte e il grosso dei titoli cambia di proprietà al di fuori dei circuiti ufficiali, intasando appunto Sigma X, Chi X e le dark pools di Citi, Credit Suisse e altre banche, oltre ad altri Ats secondari.
Insomma, il gioco da grandi avviene lontano dagli algoritmi Hft, dove i grandi players puntano sul rischio reale e dove gli investitori e gli speculatori si focalizzano per le prossime mosse. Il fatto che le prime tre azioni, le più attive nel trading, su Sigma X siano tre titoli italiani di primaria importanza, non dovrebbe farci stare tranquilli. Quelli che giungono dall’oscurità del trading sono segnali ben più seri dell’ampliamento dello spread tra titoli italiani e Bund o del rendimento dei semestrali che sfiora il 2%: in quella che con il passare dei giorni appare una versione 2.0 del 1992, la speculazione ha messo gli occhi sulle banche del Belpaese perché certa di una fragilità di base, aggravata dai processi di ricapitalizzazione e dallo spauracchio di Basilea 3.
Unicredit, inutile negarlo, è entrata a pieno titolo nello “short basket” di Goldman Sachs, paniere di titoli sui quali si punta al ribasso: ecco spiegato, senza scomodare gli stop loss o la Consob, il tonfo della scorsa settimana del titolo bancario italiano, inseguito da voci sempre più pressanti riguardo problemi di una certa entità legati alla controllata polacca Bank Pekao, soprattutto in relazione al ramo immobiliare. Ancora martedì Monte dei Paschi e Unicredit erano i titoli più trattati su Sigma X, mentre Intesa San Paolo era scesa dal terzo posto di lunedì al dodicesimo.
Ieri, poi, la conferma per il terzo giorno di fila con un aggravamento della situazione dettato anche dalla scadenza in arrivo per il nostro Paese, il Consiglio dei Ministri di oggi e la nomina del nuovo governatore di Bankitalia. Nel tardo pomeriggio, Intesa SanPaolo e Unicredit erano rispettivamente il primo e secondo titolo più trattato su Sigma X, con Monte dei Paschi al quarto posto e la new entry Enel al quinto.
Insomma, occhi puntati sull’Italia, non solo per lo stato di salute delle nostre banche principali, ma soprattutto per il grado di instabilità politica presente. Sarà meglio, infatti, che dal Consiglio dei Ministri di oggi esca una soluzione condivisa e una maggioranza quanto più possibile coesa, visto che i mercati continuano a dare per probabili le dimissioni di Giulio Tremonti e la pronta accettazione delle stesse da parte di Silvio Berlusconi. Se accadrà, pur non essendo io un estimatore del ministro, attenzione ai cds e allo spread con il Bund per i nostri titoli di Stato.
Ecco cosa scriveva tre giorni fa Morgan Stanley in un suo report: «Ci sono alcune speculazioni sui giornali italiani riguardo il nuovo picco raggiunto dalla diatriba tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, notizie che vedrebbero il ministro pronto a minacciare di nuovo le dimissioni e il premier questa volta pronto ad accettarle. Data la forte reputazioni di cui gode Tremonti (e la debolezza di Berlusconi presso la comunità internazionale), se confermata questa notizia sarebbe tutt’altro che utile all’Italia, soprattutto in questo momento così delicato. La stampa, inoltre, indica che Lorenzo Bini Smaghi, il quale deve dimettersi dal board della Bce dopo la nomina di Mario Draghi, potrebbe essere il sostituto di Giulio Tremonti. Nessuna di queste notizie è confermata e non è scontato nemmeno il fatto che Tremonti si dimetta, ma l’incertezza in sé in un momento molto delicato a livello sovrano (e anche decisamente poco stabile a livello politico), non è di aiuto per il mercato. Tutto questo, poi, è accaduto dopo che Moody’s ha cambiato da “stabile” a “negativo” il rating italiano».
Per l’Italia, quindi, il rischio non deriva da Atene, ma da se stessa e dalla sua incapacità di difendersi come sistema: il vero nodo della partita è la nomina del successore di Mario Draghi a Bankitalia, visto che Palazzo Koch viene recepito dall’esterno come organismo indipendente di vigilanza e tutela del sistema bancario e controllore delle scelte finanziarie e di politica economica dei governo. Se, come sembra, sarà il candidato tremontiano Grilli a vincere la sfida (cui partecipano lo stesso Lorenzo Bini Smaghi e l’attuale direttore generale di Bankitalia, Saccomanni), il mercato potrebbe tradurre questa scelta come una sorta di trasformazione della Banca Centrale in una dependance del ministero delle Finanze, vedendo lesa o limitata la sua autonomia. A quel punto, potrebbe partire l’offensiva.
La speculazione, quella davvero pesante, si è messa in posizione d’attacco: un errore politico, una frase fuori posto, un atto fuori luogo e potremmo davvero vedere scorrere il sangue sui video delle sale trading e le agenzie di rating scatenate.