Un vecchio adagio, sempre valido, recita che se vuoi capire cosa sta accadendo devi seguire il denaro. Proviamo a farlo. Nei primi tre mesi di quest’anno, stando ai dati di Lipper, agenzia che traccia i flussi dei fondi, circa 13,5 miliardi di dollari sono stati investiti in equities nordamericane, mentre 3,6 miliardi sono scappati via da titoli del mercato emergente, soprattutto cinese.
Come mai? La ragione principale di questa fuga è l’ansia per l’inflazione, problema che per Cina e India è vissuto in maniera più seria che per il mercato cosiddetto sviluppato, con forse l’eccezione della Gran Bretagna. Un errore non frutto soltanto di un’errata valutazione, ma di una precisa strategia statunitense orchestrata da banche d’affari, Fed e società di rating per mettere in croce Pechino senza dover ricorrere all’opzione bellica (la pantomima in atto in questi giorni riguardo le azioni navali nel Mare Cinese del Sud ne è la dimostrazione più chiara) e senza ingaggiare una guerra diretta con un “nemico” che di fatto sta mantenendo in vita gli Stati Uniti detenendone il debito.
Perché dico questo? Per tre ragioni soprattutto. Primo, a differenza di quanto accade in Occidente, dove l’argomento cardine rischia di essere la stagflazione, l’aumento dei prezzi in Cina riflette una forte crescita economica, la quale supporterà i guadagni nel comparto corporate. Secondo, la storia recente della Cina dimostra che i tassi di interesse possono essere innalzati senza intaccare la crescita economica (già smontata, quindi, la favola dei cinque aumenti dei tassi come ragione per cui prefigurare sfracelli futuri e disinnescati i timori per il nuovo aumento previsto entro la fine di questa settimana). Terzo, la principale dinamo delle dinamiche inflattive nei mercati emergenti è stato l’aumento dei prezzi dei generi agricoli, trend che mostra qualche segno di inversione e potrebbe beneficiare della fine del bando sull’export di grano russo dal 1 luglio prossimo.
Inoltre, il motore della crescita dell’Asia come area emergente è proprio la Cina, la cui trasformazione economica in atto è grandemente sottostimata dagli investitori esteri. Pechino, infatti, è all’inizio di un grande trend di crescita dei consumi interni, paragonabile al Giappone del 1969. Esattamente come Tokyo prima di quell’anno definibile una pietra miliare, la Cina finora ha costruito la sua crescita record sull’export: la spesa privata pesava solo per il 35% dell’output economico, metà della proporzione degli Usa e ben al di sotto di altri giganti delle esportazioni come Germania e Giappone.
L’ultimo piano quinquennale del governo cinese è esplicito riguardo la necessità di ribilanciare l’export al consumo interno, mentre si dimostra tranquillo riguardo un aumento tra il 7% e il 10% degli stipendi, un tasso che potrebbe vedere i salari raddoppiati in solo sette anni. Questo tipo di livello di crescita puntella di fatto la predizione in base alla quale entro il 2020 il numero di cittadini in grado di beneficiare di un reddito di oltre 30mila dollari salirà da 1 milione dello scorso anno a 12 milioni, mentre chi potrà godere di un reddito di più di 15mila dollari l’anno salirà da 13 a 53 milioni. E questo è solo l’inizio di un processo che nei prossimi vent’anni vedrà i cinesi sempre più influenti a livello globale di americani ed europei: la Cina ha già oggi il più grande mercato automobilistico, anche se si registra a malapena in termine di proprietà di automobili pro-capite. Oggi, meno di un terzo della popolazione ha accesso a internet ed è quasi tutta raggruppata nell’area costiera orientale. Nei prossimi due anni, il tasso di penetrazione è atteso in crescita al 51%.
Certo, qualche genio partorito dalle facoltà di economia della Ivy League potrebbe obiettare che una rapida crescita del Pil non è sinonimo di buoni outcomes di investimento, ma questo non vale per Cina, Taiwan e Hong Kong, visto che la previsione di crescita dei profitti corporate nei prossimi 3-5 anni è pari al 20% rispetto al 12,5% a livello globale. Insomma, la “spregiudicatezza” con cui la Banca centrale cinese ha finora alzato più volte i tassi è sintomo di fiducia in se stessa e nel Paese, un dato che contrasta nettamente con la timidezza di Bce, Bank of England e Fed. E lo stesso vale per la questione, annosa per gli americani, della rivalutazione dello yuan.
Anche in questo caso una falsa questione. Anzi, pretestuosa, esattamente come le continue minacce di guerra commerciale reiterate a vari livelli e con toni diversi negli anni. Per gli Usa, agganciare lo yuan a un basso tasso del dollaro equivale al fatto che i cinesi stiano barando, rendendo le loro merci più a buon mercato di quanto dovrebbero essere e creando quindi disoccupazione e dumping commerciale negli Stati Uniti. Si minaccia, addirittura, un tassa del 25% sull’import cinese per pareggiare la situazione. Peccato che non ci sia modo di portare indietro le lancette dell’orologio, a meno che non si voglia soltanto spargere populismo. Uno yuan più forte, infatti, non rinvigorirebbe la manifattura europea e statunitense, visto che a oggi l’unica concorrenza che la Cina patisce è quella delle altre nazioni in via di sviluppo. I principali beneficiari di uno yuan apprezzato sarebbero infatti le aziende vietnamite e del Bangladesh, visto che uno secco rialzo delle moneta cinese nel breve termine porterebbe come beneficio, per i cittadini Usa ed europei, unicamente un aumento del prezzo di cappellini da baseball e sneakers della Nike. Molta oggettistica, poi, viene costruita in Giappone, Taiwan e Corea e solo assemblata a basso costo in Cina. E fino a quando le moneta di Taiwan, Corea e Hong Kong continueranno a calare contro il dollaro, l’effetto di un eventuale apprezzamento dello yuan sarebbe cancellato in un colpo solo.
Gli stessi economisti della Fed di St. Louis, in un sussulto di onestà, hanno dovuto fare le somme e ammettere che un apprezzamento dello yuan del 25% si tramuterebbe automaticamente in un aumento dell’inflazione negli Usa di circa 1 punto percentuale. Di più, gli stessi analisti hanno ammesso che i manufatti prodotti in Cina non potrebbero essere facilmente sostituiti da altri made in Usa nel medio termine. D’altronde, dal 2005 al 2008 lo yuan si è apprezzato del 20% in termini nominali contro il dollaro, addirittura del 505 se si tiene conto dell’aumento dell’inflazione in Cina: i manufatti Usa ne hanno forse beneficiato? Non mi pare.
Lo sbilancio commerciale tra Cina e Usa è cresciuto di circa un terzo e l’import cinese è continuato a crescere per tutte le principali categorie. Nei fatti, è nell’interesse della Cina permettere un graduale apprezzamento della sua valuta, soprattutto per la minaccia posta nell’immediato dall’inflazione, visto che una moneta più forte renderebbe meno gravosa la bolletta dell’import di petrolio, carbone, rame e altri materiali ferrosi, i cui prezzi sono denominati in dollari. Uno yuan più forte potrebbe poi frenare il flusso di denaro speculativo, permettendo alla Banca centrale di stampare meno nuove banconote per operare swaps rispetto ai dollari guadagnati dagli esportatori cinesi.
È un’altra la sfida che la Cina dovrà davvero affrontare: negli ultimi dieci anni, infatti, il boom cinese è stato alimentato da quelli che in gergo anglosassone vengono definiti “frutti appesi in basso”, ma ora deve fare i conti con i players globali su un altro piano. Se Pechino vuole creare industrie innovative e ad alta tecnologia, deve concorrere contro Corea, Germania e Giappone e al quel punto i bassi prezzi e l’enorme forza lavoro cinese conteranno di meno. Col passare degli anni, poi, la Cina si arricchirà sempre più, le importazioni cresceranno e faranno diminuire il surplus del Paese: nella scorsa decade, per esempio, il consumo di benzina è raddoppiato e trasformato la Cina nel primo cliente dell’Arabia Saudita, scavalcando gli Usa.
Le riforme agricole poste in essere faranno aumentare la produzione, ma dovranno anche riuscire a pareggiare l’aggiustamento della bilancia commerciale imposto dall’aumento delle importazioni, visto che la vera sfida sarà quella della autosufficienza alimentare a fronte di una richiesta di cibo sempre crescente e di un netto cambiamento di abitudini. Sfide, certo. Ma non vorreste che fosse il vostro Paese a doverle affrontare a fronte dell’esangue stagnazione europea e statunitense? Nonostante la retorica Usa, ogni mossa improvvisa al rialzo dello yuan potrebbe creare pesante disagio sia per la Cina che per il resto del mondo: occorre, invece, nel lungo periodo una crescita graduale fino a livello normale, visto che un aumento controllato manterrà l’economia cinese bilanciata ed eviterà scossoni globali in un quadro ancora di instabilità e debolezza.
Perché parlo di retorica Usa? Non sono diventato una quinta colonna di Pechino, né tantomeno ne sono finanziato, né dimentico quanto di importante ancora la Cina debba fare a livello di tutela dei diritti e delle libertà (peccato che Pechino, pochi giorni fa, abbia istituito una moratoria di due anni sulla pena di morte e, salvo pochissime eccezioni, nessun media occidentale ne abbia parlato, quando a ogni singola esecuzione si arma – giustamente – un can can mediatico senza fine: chissà come mai?): semplicemente, cerco di guardare in faccia la realtà e le cifre e di non farmi abbagliare da messaggi clamorosamente falsi.
Come spiegare, altrimenti, l’articolo pubblicato da Cns News e prontamente ripreso dall’influente e seguitissimo sito DrudgeReport, secondo cui la Cina avrebbe disinvestito il 97% delle sue posizioni in T-Bills statunitensi? L’autore dovrebbe infatti spiegarci come mai grida alla svendita della detenzione di debito a breve termine Usa oggi che siamo a quota 5,7 miliardi di dollari, quando nel giugno dello scorso anno era a 3,99 miliardi di dollari. Gli ci vuole un anno per scrivere un articolo? Tanto più che a fronte del presunto calo dei T-Bills, in marzo il dato della detenzione cinese di debito statunitense a lungo termine ha toccato quota 1139,2 miliardi di dollari, un aumento di 31 miliardi dai minimi dello scorso anno. Si sparano panzane per il semplice fatto che l’unico dato veramente importante riguardo il debito statunitense è quello raffigurato dal grafico qui sotto
Certamente la Cina potrebbe decidere di scaricare il debito Usa, prima o poi (più poi che prima), ma statene certe che ce ne accorgeremmo in anticipo. Il vero guaio è che, come dimostra il grafico, il detentore maggiore a livello nozionale del debito Usa oggi è la Federal Reserve. La vera preoccupazione, quindi, non deve risiedere nell’atteggiamento cinese, ma in ciò che potrà accadere quando la Fed annuncerà – e lo farà, statene certi – la terza ondata di quantitative easing e si trasformerà nei fatti nel più grande detentore di securities del Tesoro, più di Cina, Giappone e Regno Unito insieme.
Ma si sa, in un Paese dove non si vuole ammettere di fronte ai propri cittadini che o si alza il tetto limite di debito entro agosto oppure si rischia davvero grosso, è meglio spostare l’attenzione altrove e creare un bel nemico pubblico contro cui prendersela, ora che Bin Laden è morto e mancano totem del terrore da inoculare nelle menti.
P.S. Vi chiederete perché, nel pieno della bufera greca, mi prendo la briga di occupare lo spazio a mia disposizione parlando di Cina. Semplice, mi sono ripromesso di non parlare più di Atene e dintorni fino a quando non emergerà una notizia degna di questo nome e non una farsa. Come giudicare, infatti, la grande novità in base alla quale i creditori privati della Grecia parteciperanno in qualche modo al salvataggio? Perché, direte voi?
Semplice, in base a questo ennesimo schema Ponzi, le banche manterranno iscritto nei bilanci il debito greco che detengono al valore contratto e nozionale e non a quello reale di mercato allungando però le scadenza e attuando lo scambio tra debito vecchio (e in scadenza) e debito nuovo prorogato su “base volontaria”, di fatto eliminando l’impressione del default. Insomma, si prende tempo in attesa di scaricare il fardello sui contribuenti, as usual. Il centrodestra che vince in Portogallo? Scusate, ma vi cambia molto se a portare il caffé ai funzionari del Fmi e dell’Ue sarà un premier-fantoccio conservatore o progressista?