Le esercitazioni teoriche degli economisti a suo tempo chiamati dal presidente francese Sarkozy a ripensare il concetto di “Prodotto interno lordo”, riformandolo in modo da avvicinarlo a un più generale criterio di “Benessere interno lordo” – da Pil a Bil, insomma – pur avendo lasciato tutto il tempo che avevano trovato, almeno un merito l’hanno avuto: quello di chiarire che il concetto di benessere percepito è molto più rilevante ed è molto diverso da quello di crescita del Pil. Mentre quest’ultima è infatti un’aggregazione statistica, il benessere percepito deriva da quell’insieme di fattori misurabili, ma non solo, e necessariamente materiali, che inducono la “sensazione di benessere” presso la popolazione di un Paese o la maggioranza di essa.
Ebbene: al punto in cui è la finanza pubblica italiana, per quadrare il cerchio di mantenere i saldi del deficit e del debito secondo i dettami europei e insieme far crescere il Pil, rischia di diventare inevitabile far diminuire il Bil, il benessere percepito. Il che sul piano politico, in una fase convulsa e caotica come questa che sta attraversando il Paese, rischia di essere del tutto impraticabile.
Ecco, allora, che dalle primissime indiscrezioni, la manovra finanziaria da complessivi 40 miliardi di euro in tre anni che il governo deve progettare e presentare il 20 giugno alla riunione dell’Ecofin, il consiglio dei ministri europei dell’Economia e delle Finanze, rinvierà al 2013 – sicura responsabilità quindi di un futuro governo – la parte più consistente, riservando a questo e al prossimo esercizio aggiustamenti di minore impatto.
Già, perché con una pressione fiscale complessiva sulle imprese che può arrivare (dati Confindustria) al 58% e sulle persone che arriva al 43% è impensabile aumentare le tasse centrali (quelle locali qua e là stanno aumentando con i primi perversi effetti del federalismo, ma possono aumentare solo in misura minima). E allora, per quadrare i conti, non si possono che tagliare le spese, esercizio in teoria agevole visto che appunto la spesa pubblica ammonta al 51,2% del Pil. Ma è qui che, direbbe Totò, casca l’asino. Perché il ministro Tremonti ha dovuto prendere atto che la politica dei “tagli lineari” era l’unica che poteva essere realisticamente praticata in un Paese dove le lobby, tutte elettoralmente ben rappresentate, erano lì pronte, con i fucili spianati, a impallinare qualunque squilibrio nell’austerity si profilasse all’orizzonte. Con i tagli lineari, invece, tutti sono rimasti delusi, ma nessuno ha potuto lamentare di essere bistrattato rispetto agli altri.
Il guaio è che questa linea non può essere protratta all’infinito, perché in alcuni settori i tagli lineari fin qui apportati hanno sfrondato gli sprechi, e a volte nemmeno tutti, mentre in altri hanno già morso nel vivo! Come insistere sullo stesso metodo? E d’altronde, come tagliare i veri sprechi, in fase pre-elettorale? Impossibili entrambe le soluzioni. Si parla allora, e da più parti, di una manovra fiscale che allevierebbe le aliquote delle imposte sui redditi trasferendo sulle imposte indirette, prima fra tutte l’Iva, la pressione alleggerita dalle altre. Ma sarebbe, questa, una manovra sperequativa e nociva comunque per i redditi più bassi e anche per quelli medi, colpiti indiscriminatamente sui consumi (che non hanno proprio bisogno di essere depressi, in questa fase), anziché essere aiutati a spendere.
In realtà, anche l’idea di ridurre le aliquote maggiori – quella del 43%, che colpisce i redditi superiori ai 75 mila euro – grazie appunto a questo trasferimento di pressione sull’Iva, sarebbe da correggere. Perché oggi una famiglia benestante di cinque persone, monoreddito, in Nord Italia non può considerarsi ricca se gli introiti mensili sono i 6000 euro netti al mese, pari – con quell’aliquota – al cospicuo lordo di 100 mila euro all’anno. Benestante sì. Ricca no. La ricchezza inizia a meritare questo nome quando i redditi veleggiano sopra quei livelli e via via su, verso i 300 o 400 mila euro all’anno, per non parlare dei patrimoni accumulati da decenni e della loro redditività finanziaria.
In questo senso, l’idea di un prelievo patrimoniale una tantum sui grandi patrimoni e sugli altissimi redditi potrebbe essere un bell’esempio di solidarietà sociale, non fare né caldo né freddo alle “vittime” ed essere più equanime di tante altre possibili manovre. Intendiamoci: i contribuenti che dichiarano più di 100 mila euro all’anno sono pochissimi, appena l’un per cento del totale, a riprova intuitiva di quanto sia ancora vasta l’evasione o almeno l’elusione fiscale. Ma un segnale di equità il fisco potrebbe darlo, a favore delle fasce medio-basse.
Vorrà mai farlo, saprà mai farlo, un governo di centrodestra? Forse sì, perché è l’unico modo di ottenere molto, scontentando pochi: anche se al prezzo di calpestare qualche principio fondatore. Ma quanto valgono i principi, quand’è in gioco la permanenza dell’Italia in Europa e di un gruppo dirigente al potere? Con una prudente imposta patrimoniale, diminuirebbe il “benessere percepito” di pochi, a favore del consenso di molti.