A che gioco sta giocando la Germania? Apparentemente, Berlino sta dettando la linea sulla crisi greca dopo settimane di rimandi e chiacchiere al vento. Un’opzione, quella tedesca, in aperto contrasto con quella della Bce, contraria a qualsiasi forma di ristrutturazione poiché questa avrebbe un impatto notevole anche per il suo stesso bilancio.
Nonostante questo, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, ha scritto una lettera, datata 6 giugno, al presidente della Bce, Jean-Claude Trichet e ai ministri finanziari dell’Ue per dare indicazioni sull’attuazione del secondo pacchetto di aiuti finanziari alla Grecia. Schauble chiede alla Bce e all’Ue che la scadenza dei titoli di Stato ellenici venga allungata di sette anni per permettere al governo di Atene di avere il tempo necessario per riformare la propria economia, far ripartire il Paese e, in definitiva, ripagare il debito. I creditori privati, poi, scrive ancora il ministro tedesco, «devono contribuire in modo sostanziale» al secondo piano di aiuti per la Grecia appena approvato.
Noterete da soli che la posizione del ministro delle Finanze tedesco è decisamente più dura di quella dell’Ue e della Bce. Quest’ultime, infatti, si sono espresse in favore di un contributo privato “volontario” e non obbligatorio al salvataggio della Grecia, al fine di evitare il cosiddetto “credit event”, ovvero quel default che Fitch e Moody’s si sono premurati di far sapere che scatterà comunque nel momento in cui si verificherà una perdita di qualsiasi entità per i detentori di obbligazioni. In base al piano di Ue e Bce, ai detentori di debito pubblico di Atene verrebbero offerti incentivi a scambiare bond greci che hanno in portafoglio con altri di nuova emissione dalla scadenza più lunga.
Una situazione che, secondo i consiglieri dell’executive board della Bce, Lorenzo Bini Smaghi e Jurgen Stark, innescherebbe un effetto domino sui mercati finanziari sulla scia di quanto avvenuto con il crack di Lehman Brothers (magari, gli piacerebbe che fosse così limitato) e la stessa Eurotower rischierebbe gravi perdite data la forte esposizione in titoli greci, pari a 45 miliardi di euro, stando agli analisti di Intesa Sanpaolo. I quali, si sa, da buoni italiani hanno il cuore grande e non affondano la lama nella carne viva del problema. Il quale, credetemi, è ben più serio.
Mentre infatti la Grecia si divide fra dibattiti fiume all’interno del governo e del partito di maggioranza, con il premier George Papandreou che minaccia l’indizione di un referendum sul salvataggio del Paese e manifestazioni di piazza che giorno dopo giorno crescono se non di partecipazione certamente di livore, i regolatori cominciano a porsi seriamente la questione della tenuta del sistema bancario europeo in caso di eventuale default o ristrutturazione del debito greco. È infatti la fragilità degli istituti di credito del Vecchio Continente a rendere più complicata la risoluzione del rebus greco, escludendo scelte che impongano perdite o tagli dei rendimenti a fronte della difficoltà di raggiungere livelli di capitalizzazione adeguati.
Credit View, una società svizzera di rating, la stessa che predisse la necessità di un secondo salvataggio per le banche irlandesi lo scorso anno, in uno studio che sarà pubblicato oggi calcola in 347 miliardi di dollari il capitale addizionale di cui le 33 banche europee più grandi avranno bisogno entro il 2012 per giungere al livello di common equity del 10%. Di più, le banche europee, alla fine dello scorso anno, avevano 188 miliardi di dollari a rischio per esposizioni al debito governativo greco, irlandese, portoghese e spagnolo. E se per Dirk Hoffmann della Sanford C. Bernstein di Londra, «l’impatto di una ristrutturazione del debito greco è seriamente sovrastimata», il già citato Lorenzo Bini Smaghi è di altro avviso: «Una ristrutturazione del debito sovrano, che comporti perdite per i detentori di bond, dovrebbe essere vista come ultima ratio, poiché potrebbe comportare implicazioni serie sul Paese e sugli investitori. Molto spesso, le ristrutturazioni sono state portatrici di disordine, difficoltà e serie minacce».
Una posizione, quella della Banca centrale europea, nota da tempo. Da ieri, sappiamo anche per filo e per segno il perché. Il think tank inglese OpenEurope ha infatti pubblicato un report dal titolo “A house built on sand?” dal quale si evince chiaramente il motivo di questa fermezza da parte di Francoforte: la Bce, infatti, in caso di default sarebbe a rischio insolvenza, esattamente come scrivevo due settimane fa su ilsussidiario.net. Insomma, la casa costruita sulla sabbia richiamata nel titolo sarebbe proprio quella della Banca centrale, la quale ha attualmente un livello di leva di 23,4 a 1 (avete letto bene), ovvero ogni euro di capitale proprio ci sono 23,4 euro investiti principalmente in debito pubblico europeo di paesi a rischio: stiamo parlando di una banca centrale, non di un fondo speculativo e a fronte di questo ci sono in cassa capitale e riserve solo per 82 miliardi di euro!
Per fare una comparazione, la Banca centrale svizzera (quindi di un Paese molto market&money friendly) ha leva 6,25 a 1, la Riskbank svedese 4,73 a 1 e la Banca di Norvegia 5,85 a 1. Appare chiaro, quindi, perché Bini Smaghi e i suoi colleghi insistano per ristrutturazioni su base volontaria e che non tocchino il capitale, negando l’ipotesi stessa di ristrutturazione.
Stando ai numeri di OpenEurope, infatti, alla prima ristrutturazione, la Bce fallirebbe a meno di un’ulteriore iniezione di capitale. La realtà che si cerca di mascherare, quindi, è che in caso di default greco non solo un discreto numero di banche francesi e tedesche andranno incontro a perdite tali da far traballare i necessari requisiti di adeguatezza del capitale, ma la Bce diverrà insolvente, visto il suo livello di esposizione al debito governativo greco, al settore bancario ellenico e al debito del settore bancario irlandese.
Se questo mai dovesse accadere, bisognerà decidere se ricapitalizzare la Bce o permetterle di stampare moneta per riconquistare solvibilità. Il problema è che, nonostante la Bce abbia una minima esposizione denominata in valute estere, il suo statuto le vieta di stampare moneta: quindi, si potrebbe giungere a una seconda violazione delle regole, visto che di fatto il Trattato Ue vietava i salvataggi sovrani, ma questo non ha impedito di intervenire per Grecia, Irlanda e Portogallo. Solo che questa ipotesi significherebbe iperinflazione nell’eurozona, una vera e propria sciagura stante la ancora fragilissima ripresa in atto. Alla fine, si deciderà di ricapitalizzare la Bce con soldi dei contribuenti e Parigi e Berlino faranno lo stesso anche per le loro banche, dando però fine a tutti i programmi di salvataggio. Quindi, possibile addio all’eurozona e all’euro.
D’altronde, sono i numeri a parlare. Stime di OpenEurope parlano di un’esposizione della Bce verso i cosiddetti Pigs per 444 miliardi di euro, un ammontare pari circa ai Pil combinati di Finlandia e Austria: di questi, 190 sono legati allo Stato e alle banche greche, situazione che in caso la Bce vedesse il valore dei suoi assets perdere solo il 4,25%, un rischio ormai non più remoto, significherebbe prosciugamento dell’intera base di capitale.
Insomma, i grossi rischi sul debito sono stati trasferiti dai governi e dalle banche ai libri della Bce, la cui garanzia ultima sono i contribuenti, ma se per caso la Grecia decidesse di ristrutturare metà del suo debito – quanto occorre per portalo a livelli sostenibili – la Bce andrebbe incontro a perdite tra i 44,5 e i 65,8 miliardi di euro sui bond governativi che ha acquistato e sul collaterale che sta detenendo dalle banche elleniche. Questo equivale a una percentuale tra il 2,35% e il 3,47%, quindi molto vicino a quel fatidico 4,25% citato in precedenza che significa erosione totale del capitale di base e insolvenza, ma soprattutto lo spostamento al rialzo dell’asticella della leva a cui è esposta la Bce verso la ratio astronomica che varia tra 52 a 1 e 123 a 1 nello scenario peggiore.
Con un rapporto di leva 30 a 1 Lehman Brothers è andata gambe all’aria, quindi nemmeno se la moglie di Trichet fosse a capo contemporaneamente di Standard&Poor’s, Fitch e Moody’s, queste agenzie si asterrebbero dal dichiarare il default della Bce. Salvare la Grecia ci costerà l’Europa? È molto probabile, anche perché questa è l’intenzione tedesca: a Berlino sanno che il cancro è ormai in fase avanzata, le metastasi estese ad almeno tre paesi e in continuo peggioramento. Meglio chiudere con l’accanimento terapeutico, pagare il conto facendo piangere anche i creditori privati per risparmiare qualche miliardo di euro e ripartire con un’Europa a due velocità, ricostruendo sulle macerie.
D’altronde, era il 2005 quando la Deutsche Bank avvertì i suoi investitori più importanti attraverso un report, del fatto che il default di un paese dell’Ue avrebbe mandato in frantumi l’eurozona nel 2010. Quando lo scrissi sul settimanale Tempi, qualcuno voleva disporre per me un trattamento sanitario obbligatorio: chissà cosa pensa ora?