Nei prossimi due anni arriverà a scadenza quasi la metà del debito pubblico italiano: il 43%. Il che equivale, se si considera che il debito pubblico si aggira sul 120% del Pil, che il 51,6% di quanto l’Italia produce in un anno dovrà essere versato ai creditori per saldare il nostro passivo.
Per carità, si tratta di un calcolo paradossale. Tanto per cominciare, salvo una crisi di fiducia epocale, questi debiti saranno rinnovati. Inoltre, non va dimenticato che più della metà dell’esposizione dello Stato è nei confronti di investitori italiani: in un certo senso è una partita di giro nei confronti di risparmiatori che dispongono di assets cinque volte superiori al debito.
Ma val la pena di ricordare questi numeri nel giorno del faticoso avvio della finanziaria, “il primo amore che non si scorda mai”, come ricorda con una punta di ironia Guseppe Vegas, fino all’anno scorso relatore di maggioranza alla legge, di cui è uno dei massimi cultori, da pochi mesi ai vertici della Consob.
Nella sua nuova veste ha promesso interventi per il rilancio della piazza finanziaria italiana. Peccato che Giulio Tremonti, rispolverando la tassa sul bollo e ritoccando verso l’alto le tasse sul trading bancarioabbia posto le premesse per la cancellazione totale della City milanese che già non naviga in buone acque, come dimostra il fatto che in sei mesi è riuscita ad attrarre sul listino una sola azienda, Ferragamo: le banche di investimento, quelle che controllano la stragrande maggioranza delle transazioni, non avranno alcuna difficoltà a girare le loro transazioni alle sedi esterein entrata e in uscita.
A rimetterci saranno soprattutto i piccoli traders, una “razza” più diffusa in Italia che altrove e che alimenta un discreto indotto. Nel migliore dei casi una “grida manzonianna”, come ha commentato l’associazione degli operatori delle Sim di Borsa: priva di effetti verso i grandi, esiziale per un segmento che dà comunque spessore a un mercato estero-diretto. Ma questi sono dettagli di fronte a un quadro complesso, ricco di dettagli da far tremare i polsi.
Non solo l’Italia dovrà preoccuparsi di trovare, solo per i rimborsi di quantogià dovuto (al netto di nuove spese o investimenti) 183 miliardi nei prossimi dodici mesi, ma, pena la fine per asfissia, dovrà ritrovare la strada della crescita. Sfida improba, visto che la ripresa internazionale non è così brillante come sperato.
Sfida impossibile, se non si mettono in moto le riforme, in primis quelle sul mercato del lavoro. Ma, più ancora, se non si mette mano al tema dell’invecchiamento della popolazione: un Paese di vecchi, che non mette i giovani (e, non meno grave) le donne in condizione di collaborare alla crescita del Pil, si condanna da solo all’asfissia.Certo, ancora per un po’ si potrà ancora fare affidamento al tesoretto accumulato in passato e che giace nelle banche del Bel Paese, meno solide dopo cinque anni di crisi della clientela che alla vigilia della crisi del 2007. Meno capaci di fare utili, perché concentrate sul modello tradizionale di banca commerciale, perciò bersaglio facile della speculazione internazionale, che ha trasformato la stagione degli aumenti di capitale in una sorta di tiro a segno.
È questa la cornice della congiuntura attuale: una congiuntura difficile, per certi versi drammatica, ma senz’altro gestibile con le risorse intellettuali, finanziarie e istituzionali a nostra disposizione. Ma che ci ostiniamo a non usare. Ci sono, infatti, due modi per giudicare la manovra ancor prima del prevedibile assalto alla diligenza di corporazioni e ceti, magari portatori di interessi più che legittimi.
Il primo giudizio, ovviamente positivo, è del ministro Tremonti che ha difeso con le unghie e con i denti la filosofia di un provvedimento che va, per scelta di legge fatta dal Parlamento, approvata dall’Unione europea. La manovra, sottolinea Tremonti, segna comunque la fine della stagione del “deficit spending”. L’Italia punta, come concordato, al pareggio di bilancio entro il 2014. È vero, il grosso della partita si giocherà solo nel 2013/14 quando, spera Tremonti, la congiuntura finalmente ripartirà. E, più ancora, avranno pieno effetto i buoni frutti degli accordi contrattuali tra Confindustria e sindacati che, finalmente, sono stati firmati anche dalla Cgil. Avanti, piano, insomma. Ma avanti.Il che, nel bel mezzo di scandali, denunce, bracci di ferro tra premier e magistratura su ogni scacchiere possibile (manca solo il Milan all’appello…) è quanto di più simile a un miracolo si possa immaginare.
Più che di un miracolo, replica a distanza l’ex premier Romano Prodi, è al solito un gioco di prestigio. Nemmeno troppo sofisticato. “Non è incoraggiante leggere che il peso di una manovra di 47 miliardi sarà distribuito in 7 miliardi nel primo biennio e 40 in quello seguente” replica Prodi. In sostanza, il governo rimanda a dopo le elezioni il grosso dei sacrifici. Un gesto di debolezza, ma più ancora un gesto pericoloso che espone l’Italia a una lunga stagione di instabilità sui mercati finanziari. Difficile dargli torto. Ma è anche difficile che l’esecutivo possa far qualcosa di diverso: il governo non è in grado di reggere una finanziaria più corposa. È dubbio che il Paese, in queste condizioni internazionali, possa affrontare a cuor leggero un’eventuale campagna elettorale.
Del resto,lo stesso Prodi condivide la decisione di tagliare deduzioni e di disboscare la giungla dell’elusione fiscale. La strada maestra non può che passare da una lotta spietata all’evasione, circa 150 miliardi annui.Prima di risultati tangibili su questo fronte, i discorsi sulla riforma fiscale ricorderanno quelli sul sesso degli angeli, sia da destra che da sinistra. A meno che qualcuno non affronti con il machete il nodo della spesa pubblica, comunque eccessivo e tale da render ridicola la cifra da destinare agli investimenti. Ma basta ascoltare i pianti delle categorie (dalla scuola, alla sanità, fino ai mercati finanziari) per capire che i margini sono davvero ristretti senza una grande operazione bipartisan.Quasi impossibile, se si pensa di tirare avanti in queste condizioni fino alla scadenza del 2013.
In tal caso, rassegniamoci al solito taglio delle auto blu previsto a ogni finanziaria, salvo scoprire che l’anno dopo sono ancora di più. Al tetto degli stipendi pubblici o delle pensioni d’oro (anche questo annunciato ogni dodici mesi). Molto di più Tremonti, oggi osannato a sinistra come i borghesi in rivolta osannavano il ministro Necker prima dello scoppio della Rivoluzione francese, non può fare.