Aix-en-Provence – Quella che, alla fine del primo millennio, fu la capitale del mitico Regno del buon Re René (a cui Averroé affido i manoscritti della letteratura e della filosofia greca salvati dal fondamentalismo islamico che, a Cordova, voleva farne un falò) non è solamente la sede di una prestigiosa università e di una serie di Festival estivi.



Ogni anno, in occasione dell’inaugurazione del Festival International dell’Art Lyrique, vi si tiene la conferenza internazionale del Cercle des Economistes (un club che per statuto può avere soltanto 30 soci) aperta al fior fiore dell’economia mondiale. Dall’8 al 10 luglio, un centinaio di esperti di rango (per l’Italia, Draghi, Bassanini, Monti, Reviglio) si sono dati appuntamento per esaminare il ruolo dello Stato in un mondo sempre più interessato dall’integrazione economica internazionale.



È da questo contesto che il vostro chroniqueur vede le tensioni sui mercati che interessano l’Italia e che hanno portato lo spread dei titoli decennali al livello più alto segnato negli ultimi nove anni. Basta una frase, quella pronunciata a mezza bocca, salutando un suo interlocutore italiano, dal Presidente della Banca centrale europea (Bce) Jean-Claude Trichet: salvate Tremonti; evitate un cambiamento alla guida del ministero dell’Economia e delle Finanze.

Questa testata può sottoscrivere questa affermazione sine ira et studio, come si insegnava un tempo nei licei. In effetti, in una serie di approfondimenti abbiamo criticato numerosi aspetti del decreto di finanza pubblica ora all’esame del Parlamento: la scansione temporale della manovra, l’attenzione verbale più che sostanziale ai costi della politica, la scarsa priorità alla famiglia e ai giovani, la contrazione dell’investimento pubblico, il peso sul ceto medio e anche sulle fasce basse di reddito.



Nessuno può tacciarci che siamo pronti a morire in trincea per salvare il soldato Giulio esclusivamente a ragione di una convinzione fideistica delle sue vere o presunte virtù taumaturgiche oppure in base a una contiguità quasi correntizia. Occorre salvare il soldato Giulio perché in questa fase di tensione sui mercati internazionali a proposito del debito sovrano europeo (l’Italia ha il più alto stock di debito sovrano nell’Unione europea e il terzo al mondo) un cambiamento di responsabile politico dell’economia e della finanza o (ancor peggio) una crisi di governo potrebbero avere un impatto fortemente negativo su tutto il Paese. Converrebbe, nel breve periodo, unicamente al sempre presente partito del “tanto peggio, tanto meglio”, ma nel medio o lungo costerebbe caro ai loro elettori.

La miccia ancora una volta è la Grecia. Il piano di salvataggio, e le stesse misure adottate da Fmi, Ue e Parlamento dell’Ellade non sono che un tampone. Christine Lagarde, che sarebbe dovuta essere a Aix, ha annullato proprio per questa ragione l’impegno preso ed è rimasta a Washington (pare che il CdA del Fmi sia rimasto in seduta tutto questo fine settimana). Sotto il profilo tecnico, il rischio d’insolvenza permane non solo nei confronti di banche francesi e tedesche (che troppo allegramente hanno concesso prestiti alla Grecia), ma anche di istituti greci; dato che l’azionista di riferimento di molti di essi è il Governo di Atene, si arriva al paradosso di un Governo che sarebbe insolvente nei confronti di se stesso, insolvenza che, a sua volta, aggraverebbe i problemi di finanza pubblica.

A questo rischio si aggiunge quello politico, sottolineato con acume da Tyler Cowen della George Mason University: sino a quando gli elettori greci daranno il supporto a Parlamenti (e Governi) che chiedono lacrime e sangue (secondo esperti della Banca mondiale presenti a Aix ci vorranno circa dieci anni perché la cura funzioni)? E sino a quando gli elettori del Nord Europa (Germania, e non solo) saranno pronti a votare Parlamenti (e Governi) disposti a donare sangue (dei loro contribuenti) perché la “cura greca” abbia gli effetti auspicati?

In breve, il futuro del soldato Giulio (e dell’Italia) non sarebbe, al tempo stesso, così cruciale per tutti e così a repentaglio se il contesto internazionale non fosse tanto turbato. L’Italia non è direttamente coinvolta nella crisi del debito greco, in quanto su un totale di 87 miliardi di euro di riserve, meno dell’1% sono collocate in titoli greci. Secondo l’Abi e la Banca per i regolamenti internazionali, gli istituti di credito italiani sono poco o per nulla esposti nei confronti della Grecia, nonostante gli incentivi della Repubblica Ellenica ad aprire sportelli e a finanziare imprese e investimenti del Paese.

In breve, il contagio finanziario diretto sarebbe verosimilmente di portata molto modesta, ma i suoi effetti potrebbero essere amplificati dalla situazione dei nostri conti pubblici, dall’andamento lento dell’economia reale e dalle fibrillazioni politiche. In particolare, nello scenario peggiore, ove la Grecia uscisse dall’area dell’euro con il rischio di uno smottamento dell’unione monetaria, senza una tenuta salda dei conti pubblici e del quadro politico interno, la fiducia dei mercati nei confronti di Roma rischierebbe di crollare.

Come nell’estate del 1992, quando in seguito al risultato negativo del referendum della Danimarca nei confronti del trattato di Maastricht, i mercati persero ogni stima nei confronti di un’Italia i cui Ministri cadevano come birilli all’annuncio di avvisi di garanzia.

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