Una manovra di destra o di sinistra? A giudicare dalle reazioni dei mercati, che hanno messo nel mirino l’Italia con i suoi titoli di Stato – e che sono notoriamente “di destra”, cioè guardano ai meri interessi economici, senza riguardo per il loro impatto sociale – la manovra finanziaria delineata dal governo sotto la guida del ministro dell’Economia Giulio Tremonti sarebbe decisamente di sinistra, cioè troppo morbida, troppo prudente, e inciderebbe poco o niente, almeno per l’anno in corso e per il prossimo, sui veri nodi del sistema.
A guardarla da vicino e con una lente d’ingrandimento neanche troppo convessa, la manovra risulta invece concettualmente di “destra”, perché quel poco che taglia va a tagliarlo dal reddito delle fasce medio-basse della popolazione. Quali sono, infatti, le tre voci principali su cui incide la norma? Innanzitutto il taglio dell’adeguamento automatico delle pensioni, che oltre i 1428 euro lordi mensili seguiranno solo parzialmente il crescere del costo della vita; poi l’incremento del bollo sui depositi-titoli, dagli attuali 34,20 ai 120 euro annuali sotto i 50 mila euro e a 380 euro per i depositi più consistenti. Infine, i tagli ai trasferimenti dallo Stato alle Regioni, oltre 8 miliardi di valore che gli enti locali non potranno che finanziare con imposte locali o col ripristino dei ticket, programmato infatti dal governo e poi cassato all’ultimo momento, forse per non assumersene la responsabilità politica ora.
Il clamore sollevato dalla norma “salva-Fininvest” inserita nella manovra all’ultimo minuto ha ridotto la polemica sulla natura di queste norme, ma è evidente che esse costituiscono un problema, neanche tanto piccolo, per i ceti medio-bassi, quelli che – appunto – posseggono 20-25 mila euro investiti in titoli di Stato, quelli che vivono con pensioni modeste, nell’ordine dei mille euro al mese, quelli che insomma non rappresentano l’elettorato tipico del centro-destra.
A giudicare dalla reazione dei mercati, si diceva, l’insieme di queste norme è però assai carente. Non convince, non rassicura, non basta. Delude soprattutto la scelta di non intaccare la vasta sacca di spesa pubblica improduttiva, il cui ridimensionamento viene rimesso a un generico processo di “spending review” che i ministeri vengono incaricati di compiere il prossimo anno.
Come mai questa linea del governo? Forse una spiegazione univoca non c’è, come non si è potuto dire al Paese di chi sia stata la mano pasticciona che ha infilato la norma salva-Fininvest nel testo, vedendosi poi costretta a eliminarla. Forse tanta esitazione nei tagli e la scelta di punzecchiare quasi esclusivamente alcune fasce deboli è frutto del caos politico in cui la manovra è nata.
Il ministro Tremonti, quando ha difeso la sua linea di politica economica dall’accusa standard che le è stata rivolta, di aver operato tagli lineari per non voler scegliere, si è sempre vibratamente impegnato a ricordare, al contrario, con quanta determinazione sia stata da lui scelta la strada di finanziare gli ammortizzatori sociali, concentrando al loro sostegno le magre risorse finanziarie pubbliche disponibili, grazie ai quali effettivamente negli ultimi due anni milioni di lavoratori hanno potuto mantenere pressoché stabile il loro tenore di vita, rimpinguando con cassa integrazione e sussidi il salario normale che scendeva o cessava. In questo Tremonti ha ragione da vendere e il Paese dovrebbe essergliene grato.
Dove però neanche lui è riuscito a incidere è stata la trincea delle lobby più potenti, quella innanzitutto dell’alta burocrazia pubblica, che difende con unghie e denti la propria storica autonomia di spesa e di sperpero nei mille rivoli dell’apparato amministrativo. In questo senso, la manovra è stata “di destra” nei fatti, perché ha danneggiato i meno abbienti, ma soprattutto elettoralmente controproducente, perché ha fatto arrabbiare tanti per portare a casa poco.
Le ragioni profonde di questo autogol politico sono però due, una tutta italiana, l’altra macroeconomica. La prima è questa: le condizioni della nostra finanza pubblica non sono gravi per la spesa corrente eccessiva, che lo è ma di poco, bensì per l’enorme accumulo di debito pubblico e per i costi finanziari che genera. Per correggere questa stortura occorrono politiche severe e durevoli negli anni, perché l’idea di intervenire col machete e raddrizzarla in due o tre anni comporterebbe scelte talmente impopolari – da una vera e propria tassa patrimoniale da stordire i tori a un incremento delle tasse – da risultare impraticabili per qualunque maggioranza di governo, di destra o di sinistra che fosse.
E questo è il punto: oggi il marketing della politica non concede tempi lunghi di “scambio di favori” tra ciascuna maggioranza e il suo elettorato. Nel quinquennio di legislatura che un gruppo di partiti “vince” se viene eletto al governo del Paese, deve starci anche la carota, non solo il bastone. Altrimenti saremo noi elettori per primi a non rivotare i nostri beniamini, delusi dalla loro irresolutezza.
Ed è quel che sta accadendo nell’elettorato di centrodestra e soprattutto leghista: passati tre anni dalla vittoria, constatato che nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale è stata mantenuta, l’elettorato volge le spalle a coloro che aveva scelto. È una democrazia di corto respiro, che si candida a una specie di periodica eutanasia…
La seconda ragione di questo autogol politico è invece di tipo macroeconomico. Ormai gli Stati nazionali hanno una sovranità limitata nella gestione dell’economia pubblica. Quel che decidono è non soltanto rimesso al vaglio di una pluralità di soggetti, istituzionali e non, che ne determinano il successo o il tracollo: Consiglio e Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario, agenzie di rating, ecc.; ma soprattutto è esposto ai contraccolpi dei mercati, perché l’aumento del differenziale d’interessi (spread) creatosi tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi negli ultimi giorni è tale da costare alle casse pubbliche più di quanto frutterà l’intera manovra finanziaria: quindi o quest’aumento rientrerà su parametri normali, o saremo punto e a capo, tutto da rifare.
È come se la gestione della finanza pubblica, sicuramente in Europa ma in fondo anche negli Usa – Obama se ne sta accorgendo – fosse diventata una fatica di Sisifo di fronte allo strapotere del “Leviatano globale”. Un mostro generato dal liberismo estremo che ormai scorrazza senza freni nel mondo facendo forse anche qualcosa di buono, ma al prezzo di gravissimi danni.