L’oro? “It’s not money!”. Così Ben Bernanke, governatore della Federal Reserve, ha risposto a un senatore nel corso dell’audizione semestrale sull’andamento dell’economia americana. No, l’oro non è denaro, nel senso che i capitali che si rifugiano nel metallo giallo escono, almeno momentaneamente, dal ciclo di finanziamento delle attività economiche.



No, non è denaro. Ma questo può essere un complimento in un’epoca in cui il denaro, finito nella trappola della liquidità, rischia di girare a vuoto. Come molti temono, dopo aver ascoltato le parole di “Ben l’elicottero”: visto che l’economia stenta a riprendersi, ha detto Bernanke, non escludiamo di far ricorso a nuove iniezioni di liquidità, se necessario. Il vero nemico, ha aggiunto, è la deflazione che resta dietro l’angolo.



Sarà la terapia giusta? Per Mort Zuckerman, miliardario, grande protagonista del mercato immobiliare Usa e, per diletto, editorialista del New York Daily News, non si scappa: “L’America non ha scelta: deve entrare nell’epoca dell’austerità”. “A farci finire così – scrive – è stata l’abitudine di Wimpy, l’amico di Braccio di ferro che continua a ripetere: dammi un hamburgher oggi, che ti pago martedì. È con questa filosofia che ci ritroviamo 12 milioni di americani che vivono sotto un tetto che vale meno del debito contratto per comprarla. No, non ci possiamo stupire se questa crisi merita ormai di esser definita la più grave della storia americana: ogni giorno Washington paga 4,5 miliardi di dollari di interessi”.



Vale la pena accendere i riflettori sulla crisi Usa, se si vuol capire sia il perché ci vuole, anche in Italia, una Finanziaria robusta, ai limiti della brutalità, sia perché questo sforzo, pur necessario, rischia di non essere sufficiente se non si accompagna a un deciso cambio di rotta. Tanto per cominciare, la crisi americana è, date le dimensioni economiche e politiche degli Usa, la crisi di tutti.

Ne sa qualcosa il Brasile, investito ogni giorno da fiumi di denaro in arrivo dalla zecca Usa che vanno ad alimentare una bolla che sta mettendo a serio rischio sia la crescita che gli equilibri sociali del Brasile, dove i problemi delle favelas crescono a fianco del costo della vita che sta rendendo San Paolo una delle città più care del pianeta.

Gli Stati Uniti, nel tentativo di trovare una soluzione esterna al problema dell’eccessivo debito (il braccio di ferro tra i Repubblicani che non vogliono tasse sui ricchi e la Casa Bianca che cerca di difendere il welfare rende impossibile per ora una soluzione interna), continuano a sostenere una liquidità sovrabbondante che finisce con il creare forti squilibri un po’ in tutti i mercati.

In assenza di una soluzione al problema del debito, la crisi, che ha ormai compiuto i cinque anni di vita, è destinata a colpire i tanti squilibri finanziari accumulati con la logica di Wimpy, ovvero consumo oggi e pago poi. L’Europa a 17, in particolare, è una ricca preda perché, rispetto agli Usa, è fatta di tante unità distinte.

È molto difficile attaccare il New Jersey o la California, per citare Stati che presentano conti non migliori della Grecia, perché davanti a loro c’è il formidabile scudo federale. Assai più agevole colpire l’Europa che marcia in ordine sparso. Soprattutto quando, come nel caso dell’Italia, il caos politico assume i contorni del suicidio, come è avvenuto nelle passate settimane.

Ma, una volta passate le smanie suicide, restano i problemi di fondo: l’Europa, se non fa un passo in avanti sulla strada dell’unità (il che significa mettere in comune una parte delle riserve sotto forma di eurobond, mettendo il debito sovrano in sicurezza), è una preda facile. L’Italia, finché non mette in cima all’agenda il problema della crescita, che si accompagna alla richiesta di una maggior equità tra le generazioni, le classi sociali, i contribuenti che pagano le tasse e quelli che riscuotono le sovvenzioni, è un bersaglio più facile ancora, condannato a un supplizio di Tantalo: ogni tanto, sotto l’incombere dell’emergenza ci vengono chiesti sforzi eroici per colmare i “buchi”. Ma, in assenza di scelte che favoriscano il lavoro e la condivisione di una ricchezza che è molto minore di quella “gonfiata” che emerge da valori immobiliari solo sulla carta (per non parlare di obbligazioni e altri titoli non rappresentativi di beni reali), è facile che il buco si ricrei.

Come sta capitando in questi giorni: l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato equivale, per il Tesoro, ad aver bruciato in interessi metà della Finanziaria ancor prima della sua approvazione. Colpa della speculazione? Si sa, i bambini, quando inciampano e si fanno male, danno la colpa al marciapiede. Ma a un certo punto è necessario crescere. E magari prendersela con tutte le categorie che già protestano per difendere i famosi “diritti acquisiti” che, in tempi di crisi così drammatica, non sono affatto acquisiti, né garantiti.

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