In giorni non sospetti, ossia prima dell’approvazione e subito dopo, ilsussidiario.net ha espresso perplessità su numerosi aspetti della manovra di finanza pubblica. Non è necessario ripeterli: ora è legge dello Stato e occorre chiedersi cosa fare perché vengano raggiunti gli obiettivi di azzeramento dell’indebitamento, di riduzione dello stock di debito pubblico (in assoluto e in rapporto al Pil) e di rilancio dell’economia dall’andamento rasoterra che la caratterizza da anni.
La principale preoccupazione di tutti dovrebbe essere individuare elementi aggiuntivi perché la strategia abbia successo. Abbandonarsi alle geremiadi o appartenere al partito del “tanto peggio, tanto meglio” vuole dire solo aggravare ulteriormente una situazione già molto difficile per tutti gli italiani.
I “nove impegni” indicati dal più diffuso quotidiano economico del Paese includono molte buone idee, ma mancano all’appello due aspetti essenziali: la coesione sociale e l’effetto dimostrativo di alcune scelte di politica settoriale.
Con il primo termine si vuol dire che le manovre di rientro dal debito sovranohanno di solito successo se rafforzano la coesione sociale, non se la indeboliscono. Occorre, infatti, uno sforzo comune e condiviso da tutti gli italiani. Venti anni fa, in un libro pubblicato con Giuseppe Scanni per i tipi di Marsilio, passai in rassegna le politiche di riassetto strutturale attuate in seguito alla crisi del debito sovrano (principalmente dell’America Latina) della fine degli anni Ottanta: appariva evidente come la coesione sociale fosse l’elemento determinante.
Dieci anni dopo, in seguito alla “crisi asiatica”, Joseph Stiglitz (oggi Premio Nobel) diede le dimissioni dalla carica di Vice Presidente della Banca mondiale, proprio perché l’istituto accettava troppo supinamente le idee del Fondo monetario e la loro scarsa attenzione alla coesione sociale. Da allora, i programmi di riassetto supportati da Banca e Fondo includono sempre un rafforzamento, non un annacquamento, della rete di tutela sociale. Sarebbe presuntuoso dire che si tratta di considerazioni adatte ai Paesi in via di sviluppo: il Cepr Discussion Paper No DP8010 giunge esattamente alle stesse conclusioni per l’area dell’euro.
Queste citazioni non vengano fatte per supponente spirito accademico (per sé sarebbe bene se approntando manovre grandi e piccole si prendesse contezza della letteratura in materia), ma perché qualcosa si può fare subito: un decreto per dimezzare immediatamente i “benefits” della “casta” (non sarebbe meglio parlare di “nomenklatura”?), in attesa che le varie Commissioni studino quanti debbano essere gli eletti e quali i loro emolumenti in una democrazia. Si dovrebbe finalizzarne i risparmi di spesa al supporto delle famiglie nelle fasce basse di reddito. Ciò spronerebbe la coesione sociale e renderebbe meglio raggiungibili gli obiettivi complessivi della manovra.È una “modest proposal”: non la si faccia cadere adducendo che i grandi non devono occuparsi “de minimis”.
Anche la seconda è una “modest proposal”: senza gingillarsi troppo se privatizzare le Poste e le Ferrovie, si cominci subito dalla Rai (finalizzando i ricavi o le mancate perdite al risanamento del debito pubblico). Può sembrare una proposta bislacca, specialmente perché nelle condizioni attuali è arduo trovare chi si voglia comprare l’azienda.
A questo riguardo sarebbe bene che il ministero dell’Economia e delle Finanze passasse i conti Rai al microscopio: se, come pare, sono analoghi a quelli del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli nel 1992, dovrebbe scattare subito un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori seguita dal commissariamento per vendere l’intera azienda o alcuni rami.
Si potrebbe ironizzare che unicamente la Croce Rossa, la Caritas o simili potrebbero essere convinti a fare tale azione caritatevole (sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio). Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato: seguire i suggerimenti di Steve H. Hanke, Direttore del Centro di economia applicata dell’Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute. Ossia, dare azioni Rai a tutti gli italiani, in base all’età anagrafica di ciascuno, quanto più si è anziani tanto più si è pagata l’imposta più aborrita, il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro), avendo, dunque, titolo a un risarcimento.
Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato, ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria.
E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). La neuro-economia sostiene che ne risulterebbe una spinta d’entusiasmo nel Paese da facilitare il rilancio.