C’è una bomba a orologeria che si nasconde in fondo ai portafogli di tutti gli italiani. Una bomba già innescata, che scoppierà nel 2014 se non verrà approvata nel frattempo la riforma del welfare.
Nel caso che non si trovi un accordo in tempo per far decollare questa riforma, compito che toccherà probabilmente alla prossima legislatura (non si sa con quale governo o maggioranza), la manovra finanziaria prevede infatti che scatti la famigerata clausola di salvaguardia, fatta di tagli a detrazioni, deduzioni e bonus fiscali: l’effetto regressivo per alleggerire l’Irpef, nel 2013 e nel 2014, vedrà ridotti sensibilmente gli sconti.
Secondo i calcoli dell’economista Massimo Baldini, si abbatterà con particolare iniquità sui nuclei familiari con un reddito medio tra i 16 e i 27 mila euro, che a regime, nel 2014, perderanno 620 euro di agevolazioni, su un totale medio di 3 mila euro, quasi il 21%. Un quinto in meno. Al contrario, il 10% più ricco delle famiglie, quelle con un reddito superiore ai 54 mila euro, lasceranno allo Stato solo 364 euro; com’è logico, visto che le agevolazioni sono rivolte alle fasce più deboli.
Non è affatto logico, però, il risultato finale: fra tre anni, se non ci sarà una crescita robusta del Pil (ahimè, improbabile) la pressione fiscale salirà di un altro 1,6% rispetto all’attuale 42,5%: sarà così battuto il record storico. La stangata colpirà in maniera rilevante i proprietari di almeno un immobile, cioè il 79% degli italiani, che dovranno aggiungere, a partire dalla denuncia dei redditi 2014, al proprio imponibile Irpef anche il 20% del valore della propria casa, vale a dire della rendita catastale.
Sempre che basti, visto che l’Agenzia del territorio nutre propositi bellicosi: i valori delle abitazioni ai prezzi di mercato, nota un recente censimento condotto dall’Agenzia, risultano nella dichiarazione dei redditi 2010 pari a 3,7 volte i corrispondenti valori patrimoniali risultanti al fisco.
Anche senza colpi di mano in materia, comunque, il salasso per i 24 milioni di italiani che subiranno il ritorno dell’Irpef sulla prima casa sarà senz’altro rilevante. A meno che non prenda corpo nel frattempo la “riforma del welfare”, eufemismo dietro cui si nasconde la necessità di arrivare entro il fatidico 2014 al pareggio di bilancio, così come promesso ai partner comunitari, modificando sensibilmente in peggio le condizioni dello Stato sociale che, nella realtà italiana, sono in pratica sinonimo di pensioni. E poco altro.
Di qui una domanda brutale: meglio lasciar pendere sul nostro capo questa spada di Damocle? Oppure, per tornare all’immagine iniziale, lasciare che nelle nostre tasche continui il ticchettio di una bomba che farà strage di risparmi, quando ci sono, e del tenore di vita? Oppure non è meglio tagliar la testa al toro, affrontando di petto le questioni strategiche, dalla riforma del welfare alla mille volte annunciata riforma del fisco?
Non è solo questione di ragioneria, naturalmente. Semmai, la riforma dovrebbe essere l’occasione per raggiungere finalmente obiettivi tanto ambiziosi quanto urgenti. Un Paese che non mette al centro della sua politica un brusco cambio di rotta per dar lavoro ai giovani e alle donne, i due punti oscuri del mercato del lavoro nostrano, si condanna a una lenta agonia, più o meno lunga a seconda del grado di spremitura della ricchezza residua. È in questa cornice che va ripensata la politica dell’assistenza, della sanità e della previdenza. Senza gettare a mare, nell’ansia di far quadrare i conti, il tesoro della sussidiarietà.
Non è uno scandalo, ad esempio, parlare di pensioni a settant’anni, purché il sacrificio si inquadri in una politica ad ampio raggio che preveda: a) un salario di ingresso aggressivo, sul piano fiscale, per le assunzioni di giovani e donne; b) contratti specifici per gli anziani, in cui si faccia ampio uso del part-time e delle forme più idonee per capitalizzare la loro esperienza a vantaggio della formazione.
Certo, è facile capire che l’attuale situazione politica non consente di nutrire speranze troppo ambiziose. Ma, al proposito, si può obiettare che è assai più nobile (e profittevole, sul piano elettorale) andare alla conta e, forse, alle dimissioni, sulla base di un progetto economico-politico di grande sostanza, piuttosto che estinguersi, giorno dopo giorno, su battaglie miserande, tipo l’autorizzazione a procedere per questo o quel parlamentare.
Non è affatto vero, come dimostra l’esempio del Belgio che non ha un governo che goda della fiducia parlamentare da più di 400 giorni, che i mercati piuttosto che l’Unione europea ci chiedono un esecutivo purchessia. Le vicende finanziarie delle ultime settimane, semmai, dimostrano che non c’è fantasia o artificio contabile che possa nascondere il vuoto programmatico o peggio.