Il mercato sta allentando la pressione negativa contro l’euro per premiare l’iniziale sforzo di convergenza degli europei nel costruire una garanzia solidale dell’Eurozona a copertura dei debiti nazionali più a rischio di insolvenza, a partire da quello greco. Ora, però, porta le attenzioni sulla possibile crisi del dollaro. Che a sua volta potrebbe riaprire quella dell’euro per altra via.



L’America ha reagito alla crisi del 2008 attraverso politiche che hanno portato alla svalutazione del dollaro: costo del denaro a zero, debito pubblico crescente coperto stampando dollari, nessuna difesa del cambio per aumentare la competitività dell’export e per ridurre il deficit commerciale, in particolare le importazioni che hanno un impatto sulla disoccupazione (ancora oltre il 9%).



In sintesi, l’Amministrazione Obama e la Riserva federale guidata da Bernanke hanno preso rischi enormi sul lato dell’inflazione e la prima non ha esitato a praticare il protezionismo via svalutazione. Ma questa terapia con mezzi straordinari e discutibili non è riuscita a far tornare l’economia statunitense a una crescita sufficiente per riassorbire la disoccupazione. È difficile dire se ciò sia dovuto agli errori di politica economica o alla gravità del colpo recessivo. Probabilmente la verità sta in mezzo.

La ferita è stata tale da richiedere una lunga convalescenza, per esempio il risanamento dei debiti privati e del mercato immobiliare. Obama, timoroso di perdere le elezioni del 2012 a causa del perdurare della crisi, ha voluto forzare oltre misura la crescita con alluvioni di denaro pubblico preso a debito, ma senza spingere a fondo la vera leva della crescita che è la detassazione stimolativa. Tale politica ha aumentato il debito, destabilizzando il bilancio pubblico, e non ha avuto effetti sufficienti.



Ora il problema è sia che Obama vorrà continuare una politica economica inefficace e destabilizzante, sia che la Riserva federale dovrà mantenere troppo basso il costo del denaro e, forse, stampare più dollari per coprire il debito. Ciò aumenta il rischio di inflazione globale e di caduta del dollaro.

L’America non si preoccupa troppo dell’inflazione perché l’estrema efficienza del suo mercato interno la riassorbe rapidamente. Poi confida sul fatto che il dollaro, essendo moneta di riferimento mondiale, non subisca deflussi eccessivi anche se il cambio scendesse di molto. Pertanto continuerà nella svalutazione, esportando inflazione. Per esempio, il petrolio è prezzato in dollari e a ogni caduta del suo valore di cambio c’è un rialzo più che proporzionale del prezzo.

Per l’Eurozona ciò è un grave problema, perché l’euro rischia un valore di cambio che ne deprimerà le esportazioni, combinato con l’aumento dell’inflazione e quindi del costo del denaro. Ma se il dollaro perdesse la fiducia del mercato subirebbe dei deflussi tali da far crollare le Borse statunitensi e mandare nuovamente in grave recessione l’America.

Poiché questa conta per il 30% del mercato globale ed è il motore della domanda mondiale, a tale evento corrisponderebbe una megacrisi generale che in Europa diverrebbe recessione grave e duratura che riaprirebbe, per la contrazione della crescita, i dubbi appena sopiti sulla sostenibilità dei debiti.

Tale rischio è riducibile da un rinsavimento della politica statunitense, ma potrà essere eliminato nel futuro solo da un accordo di convergenza tra aree dell’euro e del dollaro, questa l’unica soluzione, ormai, per risolvere la crisi di ambedue.

 

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