Se qualcuno mi chiedesse qual è il nodo del debito sovrano Usa, la risposta che mi verrebbe spontanea (avendo studiato e lavorato a Washington per 18 anni) sarebbe: “È il federalismo, bellezza!”. Se, invece, mi si domandasse di spiegare cos’è il problema di fondo dei debiti sovrani di Grecia, Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo, risponderei, dato che sono nato e vivo a Roma e da 43 anni sono sposato a una francese, con pari immediatezza: “È la differenza in produttività e competitività nell’eurozona, bellezza!”.
Credo sia fondamentale afferrare questi aspetti di base, altrimenti il debito sovrano “atlantico” finisce in un calderone in cui tutti i gatti sono bigi. Gli Stati Uniti hanno una Costituzione che limita le funzioni “proprie” del Governo federale alla difesa nazionale e alla politica estera. Le altre funzioni (anche in materia di politica economica e di finanza pubblica) sono proprie del Congresso oppure (specialmente in campo dell’istruzione, della sanità, del sociale e delle strategie industriali) di ciascuno dei 50 Stati dell’Unione.
Presidente e Congresso sono eletti in modo differente, con sistemi elettorali differenti e pure da elettori differenti. Il Governo non è espressione del Parlamento, ma gode di una propria autorità derivante dai propri “grandi elettori”. Parimenti, il Congresso risponde ai propri elettori. Per questa ragione, il bilancio federale non nasce con una legge finanziaria proposta dalla Casa Bianca, ma all’interno della pertinente Commissione della Camera; l’inquilino del villino al n. 1600 di Pennsylvania Ave. NW può respingerlo, ma se riapprovato a maggioranza qualificata o lo accetta o fa i bagagli e lascia lo studio ovale al suo Vice per il resto del mandato.
Analogamente, il livello di debito pubblico (ora attorno al 100% del Pil degli Usa) deve essere “autorizzato” dal Congresso, in base al comma 8 dell’articolo 1 della Costituzione. Se tale autorizzazione non c’è, nessun Segretario al Tesoro può con un decreto dare il via all’emissione di titoli di Stato.
Il 2 agosto scadono titoli per diversi milioni di dollari; per rifinanziarli occorrono nuove emissioni e, quindi, un nuovo aumento del “tetto” del debito: l’ultimo è stato autorizzato il 12 febbraio 2010. Se l’autorizzazione non arriverà, il Governo federale sarà tecnicamente “insolvente”. È chiaro che dietro un problema essenzialmente contabile si nasconde una battaglia di politica economica (principalmente in tema d’intervento pubblico federale in materia sanitaria).
È anche evidente che verosimilmente si giungerà a un accordo che per l’Amministrazione Obama sarà una sorta di Caporetto economica, poiché dovrà dare una sterzata al programma annunciato in campagna elettorale e nel discorso di insediamento. Ove non si giungesse a un accordo (il Congresso ha il coltello dalla parte del manico), Obama dovrebbe cominciare a pensare a un trasloco anticipato; dopo l’insolvenza, si annunciano brutte sorprese in materia di bilancio.
Di altra natura il problema europeo. Non siamo alle prese con differenze di filosofia economica all’interno di un singolo Stato (ancorché Federale), ma di differenze di strategie economiche tra Stati che hanno dato vita a un’unione monetaria. Allora non venne metabolizzata la conseguenza principale dell’irreversibilità dell’euro: chi si era abituato a comportamenti birichini – Governi, Parlamenti, burocrazie, imprese, famiglie, individui – doveva essere più virtuoso degli altri per non essere schiacciato dallo loro maggiore produttività e competitività. Chi non si è messo sulla strada della virtù ha pensato di poter tamponare indebitandosi nella speranza che un Buon Samaritano Ue sarebbe prima o poi arrivato.
Lo descrive bene un saggio che uscirà nel prossimo numero della rivista “Discussion on Estonian Economic Policy”. Lo hanno scritto – per ora è disponibile unicamente una versione in tedesco inviata per osservazioni – due professori dell’Università di Greifsweig (una delle più antiche in Europa; è stata fondata nel 1456); si bagna sul Baltico, in quella parte della Pomerania ai confini con l’Estonia. Il saggio documenta che l’eurozona – in cui l’Estonia è appena entrata – è a rischio a ragione delle profonde differenze di politiche economiche e di prassi (segnatamente in materia di lavoro e di impresa). Le intese raggiunte per tamponare il debito sovrano di questo Stato o di quell’altro sono solo cerotti. O aspirine in casi in cui occorre invece rivolgersi al chirurgo.
Ci rifletteranno gli estoni. È bene che iniziamo a farlo pure noi.