Potenza delle Borse. A poco o nulla sono serviti gli appelli reiterati del Capo dello Stato piuttosto che i moniti delle autorità morali più illustri, sia laiche che religiose. O l’intervento dell’Unione europea piuttosto che i richiami della cultura. No, per spingere le parti sociali, imprenditori, sindacati e perfino i banchieri a invocare un gesto di “discontinuità” nella vita pubblica italiana c’è voluta la logica spietata e impersonale delle cifre che scorrono sui monitor degli operatori finanziari.



Si potrebbe dire, con irriverenza ma senza spirito blasfemo, che il “Dieu le vult” della Prima Crociata, nel nuovo millennio suona “lo vogliono i mercati”: oggi, come nel ’92, quando il cambiamento che portò alla crisi della Prima Repubblica venne innescato dalla crisi della lira (e della sterlina) sotto i colpi di George Soros. Oggi, perché i mercati, che ci hanno concesso con troppa generosità dieci anni di bassi tassi per consentirci di aggredire il debito pubblico, ci presentano il conto.



A peggiorare le cose, poi, c’è da considerare che l’imprevidenza del Bel Paese non è un caso isolato: peggio di noi ha fatto la Grecia, che non ha esitato a truccare i conti pur di incassare i prestiti della comunità internazionale. Ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, che hanno gonfiato il boom del mattone oltre ogni ragionevole logica di domanda e offerta, sono destinati a subire l’ira dei mercati, su cui incombe la domanda più dolorosa: chi pagherà il conto?

Forse i creditori privati, che finora hanno evitato il problema prezzando nei bilanci per buoni titoli che in realtà valgono assai meno. Senz’altro i contribuenti, soprattutto quelli onesti. Da notare il commento del rappresentante brasiliano del Fondo monetario internazionale: le condizioni imposte alla Grecia sono molto, troppo severe. Quelle del “selected default” per le grandi banche troppo blande.



Sotto l’incombere della rabbia dei mercati, 17 parti sociali italiane hanno siglato un comunicato congiunto in cui si fa notare che “occorre ricreare immediatamente nel nostro Paese condizioni per ripristinare la normalità sui mercati finanziari”. Insomma, placare l’ira del Dio mercato. Almeno per una volta, il che è molto positivo, si lasciano da parte le sciocchezze sui complotti delle agenzie di rating (su cui indaga, chissà perché, la procura di Trani) o altre facezie sugli oscuri fini della finanza massone, tedesca o cinese.

Il mondo, investitori italiani compresi (che hanno l’obbligo di difendere i risparmi loro affidati, non di fornire i capitali a imprese campate in aria), ha deciso di stare alla larga da un Paese che, fino a oggi, si è ostinato a credere nel profondo che la crisi fosse passeggera o che comunque non richiedesse drastici cambiamenti nei comportamenti. Insomma, si prende atto che i mercati vogliono imporci quello che il buon senso avrebbe potuto suggerici già da tempo. Ma che, sfruttando il comodo alibi della rissosità della politica, la classe dirigente non ha voluto vedere. Eppure, le riforme vere, quelle che possono sorprendere i mercati, non soni difficili da individuare.

Il primo problema italiano, si sa, è la crescita del Pil. Cosa difficile da ottenere per un Paese che non solo invecchia, ma si concede il lusso di non far lavorare il 29% dei giovani sotto i trent’anni. O di lasciare a casa quasi la metà delle donne, in attesa che si costruiscano asili e sovrastrutture che richiedono anni e danari che non ci sono. Perché non procedere, d’imperio, a una detassazione del salario di donne e giovani da finanziare con l’allungamento dell’età di lavoro?

Perché non farla finita con l’andazzo dei prepensionamenti che hanno consentito a interi settori (vedi l’editoria) di tornare in profitto a spese della fiscalità generale? Perché non procedere d’imperio nella realizzazione delle opere già finanziate dall’Unione europea e che stanno ferme vuoi per ostilità di comunità locali, vuoi per intreccio di interessi più o meno clientelari o per opposizioni anche violente tollerate per ignavia più che per rispetto del dissenso? Basta leggere la cronaca di un giorno qualsiasi per capire le ragioni per cui è così difficile smontare i costi della politica: l’arma dei veti incrociati ha consentito la crescita di lobbies esose e senza scrupoli, che trovano la loro palestra per esercitarsi negli egoismi delle professioni (vedi gli avvocati) o nella scuola degli enti locali.

Ben venga, dunque, il patto per crescere. Purché non sia l’anticamera di nuovi compromessi politici per evitare di fare ancora una volta i conti con la realtà: le forze che hanno consentito di consumare in spesa corrente quel che andava speso in investimenti per dar lavoro alle nuove generazioni sono ancora ben attive.

Per cambiar finalmente pagina ci vogliono proposte semplici, non demagogiche, magari anche impopolari. È certo più difficile chiedere agli italiani di lavorare fino a settant’anni per destinare la ricchezza risparmiata all’ingresso dei giovani (magari impiegando gli anziani nella formazione in seno alle aziende, stipendio e orario part time) piuttosto che chiamarli a votare per avere l’“acqua a gratis”. Ma una mossa del genere farebbe cambiare idea ai mercati, statene certi.

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