Quasi in parallelo, il Parlamento della Repubblica Ellenica e il Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana hanno approvato due manovre di politica economica che si estendono su un arco di quattro anni.

L’entità delle due manovre è simile: 64 miliardi di euro (di cui 50 di privatizzazioni) quella varata dalla Grecia, 47 miliardi (principalmente di tagli alla spesa) quella approvata dall’Italia. Differente la scansione temporale: la manovra greca deve essere in gran misura effettuata nei prossimi 18 mesi (per non perdere i 120 miliardi di euro di fresh money, ossia di aiuti, essenziali per evitare l’insolvenza); 35-40 miliardi della manovra italiana sono progettati per la prossima legislatura.



Quindi, timing e contenuti (ad esempio, il mancato rilancio delle privatizzazioni in Italia) appaiono molto differenti. Eppure c’è un nesso forte tra le due manovre parallele. E, soprattutto, il paradosso che gli esiti dell’ammalato in relativa migliore salute (l’Italia) dipendono in gran misure dalle mosse dell’ammalato che pare quasi terminale (la Grecia). Vediamo perché.



In mercati aperti (vi ricordate dell’estate 1992?) i capitali volano rapidamente da una piazza all’altra: 19 anni fa, danesi e britannici voltarono le spalle al progetto di unione monetaria, ma l’Italia ne fu il Paese più colpito, perché l’intero progetto sembrava sul punto di un fallimento e Roma veniva, a torto o ragione, percepita come l’anello più fragile, quello che sarebbe stato ulteriormente indebolito dall’accantonamento o rinvio dell’unione monetaria.

All’indomani del varo del programma quadriennale di stabilità del Governo italiano, Standard & Poor’s ha annunciato di avere messo sotto osservazione il rating, ossia la classificazione della qualità dei titoli pubblici italiani. Moody’s ha già abbassato nei giorni scorsi quella delle obbligazioni di una lunga lista di enti locali. In breve, o per i suoi contenuti o per il suo timing o per pregiudizi nei confronti dell’Italia, il programma non ha oggettivamente rassicurato i mercati. Può essere che li abbia delusi, come scrivono alcuni commentatori.



Che c’entra tutto questo con la Grecia? Le banche e gli investitori istituzionali italiani – lo sappiamo – detengono una parte minuta del debito pubblico greco (300 miliardi di euro rispetto ai nostri 1900 miliardi). Ma il contagio non si trasmette soltanto dormendo nello stesso letto. Si trasmette se crollato un birillo piccolo (la Danimarca nel 1992, mentre allora la Gran Bretagna era essenzialmente un birillo titubante), un birillo più grande ma dai piedi d’argilla comincia a sgretolarsi. Nel caso delle manovre parallele, se quella greca va a gambe all’aria, nell’eurozona ci sarà un tormentone che, a torto o a ragione, si accanirà contro chi ha il terzo debito pubblico più alto al mondo.

Guardiamo con attenzione il piano greco. Nel mercato secondario i titoli greci stipati nella casse della Bnp o della Deutsche vengono trattati al 50% del loro valore nominale (o giù di lì). L’infusione di fresh money porterebbe le quotazioni all’80%. Non è, quindi, con uno slancio di carità che hanno risposto agli inviti di partecipare anche loro al piano di salvataggio della Grecia. Ne sarebbero i principali beneficiari, come documenta un lavoro della Federazione bancaria francese (che sarebbe dovuto restare riservato).

Attenzione, non abbiamo alcun livore contro le banche (neanche contro quelle che hanno prestato a rischio e chiedono l’aiuto dei contribuenti); esse detengono i depositi dei cittadini e una crisi, ad esempio, della Bnp avrebbe conseguenze gravissime non soltanto per la Francia, ma per il resto dell’Europa (e non solo).

Il piano “salva-banche” si basa, però, su una medicina molto amara per la Grecia: non è un’impresa facile aumentare il gettito tributario di 14 miliardi di euro in un Paese le cui ferrovie hanno ricavi per 174 milioni d’euro l’anno, ne spendono 246 in salari ed espongono un deficit complessivo di 937 milioni. È quanto meno avventato congetturare che privatizzazioni frettolose per 50 miliardi di euro diano le ex-imprese pubbliche a manager in grado di aumentarne la produttività e la competitività. Anche perché il programma, quale approvato dal Parlamento, prevede misure dure per il ceto medio, ma non sfiora importanti lobby (ad esempio, l’industria farmaceutica).

Quasi contemporaneamente al varo del programma, 18 economisti greci nelle migliori università americane hanno pubblicato una lettera aperta in cui si invita all’autarchia: sganciarsi dalla moneta unica, svalutare e attuare un programma con tempi più lunghi e maggiore attenzione ai ceti deboli per chiedere di rientrare nell’Ue e nell’euro quando la casa sarà a posto.

È senza dubbio difficile fare previsioni, ma sulla base di un’ottantina di programmi di riassetto strutturale finanziati da Fondo monetario e Banca mondiale c’è un’alta probabilità che, così come è congegnato, quello della Grecia venga attuato soltanto in parte.

Il programma prevede un monitoraggio trimestrale. Teniamo impermeabili e ombrelli pronti per ottobre o gennaio. C’è il pericolo di un uragano così forte da provocare smottamenti, seri, pure da noi.

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