Nel pomeriggio di mercoledì, quando finalmente la Finanziaria aveva ultimato in quasi una settimana il faticoso tragitto Palazzo Chigi-via XX Settembre-piazza del Quirinale che un comune taxi percorre in meno di mezz’ora, a Parigi veniva comunicato l’accordo tra l’autorità della concorrenza e l’associazione bancaria transalpina. In base all’intesa, scenderanno in maniera sensibile le commissioni sulle operazioni allo sportello, l’uso del bancomat e le spese per le operazioni interbancarie (-21%). Per la cronaca, oggi le banche francesi fatturano in media 90 centesimi per ogni prelievo su un bancomat gestito da un altro istituto. Secondo i rilievi delle associazioni dei consumatori (spesso contestate dalle banche), in Italia il costo è in genere superiore.



La coincidenza tra il taglio dei costi oltr’Alpe e la contemporanea mazzata fiscale sui dossier titoli dei risparmiatori (per i più modesti più onerosa di una tassa sui Bot) rappresenta un buon esempio del distacco crescente tra la situazione del Bel Paese e il convoglio dell’Europa che conta. Non è una semplie questione contabile, naturalmente. Ma la conferma che l’Italia, ostinandosi a non tagliare il nodo gordiano delle rigidità di casa nostra, perde costantemente colpi nei confronti di quei paesi che, magari con mille limiti, continuano a inseguire l’obiettivo di più concorrenza, ovvero più efficienza.



È un segnale pessimo, perché i mali italiani richiedono una terapia europea. Solo nell’ambito di una risposta a livello continentale sarà possibile aggredire il debito pubblico, che di sicuro non si riduce con manovre “taglia e cuci”, e impostare una strategia seria di sviluppo, che non può che passare che da un aumento della produttività, tema che richiede, a sua volta, più dimensioni, più ricerca, più presenza sui mercati. E così via.

L’esatto opposto, insomma, delle soluzioni, più o meno autarchiche, che emergono nel caos nostrano. C’è da chiedersi come sia possibile conciliare, ad esempio, il pressing della Lega per ridurre gli incentivi fiscali sull’energia rinnovabile (per certi versi una richiesta legittima, vista la generosità dei contributi del “salva Alcoa”) con i propositi battaglieri del ministero dello Sviluppo Economico che promette una conferenza sull’energia già per il prossimo autunno allo scopo di varare un piano ambizioso fatto di fotovoltaico, eolico, biomasse e così via.



Difficile conciliare l’imboscata contro le Autostrade (i tempi di ammortamento si allungano a un secolo), che hanno trovato nella Lega invece un grande difensore, con la promessa di contributi per la Milano-Genova o altre opere pubbliche che, date certe premesse, di sicuro non si potranno finanziare con il project financing, come auspicato da almeno un decennio. E così via.

Bravo chi riesce a capire verso quale direzione si muova la strategia Paese nel campo della banda larga. Il tutto mentre l’Europa ha ormai capito (probabilmente da tempo) che nel futuro prevedibile l’Italia non sembra in grado di costruire il suo tratto di Torino-Lione. O un termovalorizzatore, piuttosto che spiegare se intende davvero privatizzare la Tirrenia (un “buco” peggio dell’Alitalia) ovvero se finanziare le linee pubbliche che, con tariffe da dumping, neutralizzano gli aumenti delle linee private, uscite con le ossa rotte dalla stagione 2010.

Intendiamoci, è questione di scelte. Può esser saggio difendere le quote di mercato del turismo in Sardegna con una politica dei trasporti attrattiva e attraente. Ma, come in ogni famiglia, è questione di costi e di priorità.

Certo, queste considerazioni della serva rischiano di svilire la nobile materia della Finanziaria, con le sue ardite proiezioni trienali su tagli, risparmi e tappe di avvicinamento all’Europa grazie a risparmi e minori costi per 49 miliardi di qui al 2014. Ma, probabilmente, gli orridi speculatori che si riempiono le tasche vendendo e svendendo cds sui titoli italiani nella giusta convinzione che questo Paese, in queste condizioni di governance politica e di coscienza civile, non sia in grado nemmeno di ripulire le strade di Napoli, non fanno in ultima analisi calcoli più complessi.

Intendiamoci, l’Italia è piena di cose che funzionano e che fanno gola. In gergo tecnico, anzi, si può dire che lo sfacelo delle nostre istituzioni equivale a una buying opportunity eccezionale per far shopping a basso prezzo. Da nessuna parte le banche valgono così poco rispetto al patrimonio come da noi, ad esempio. Nonostante i risparmiatori si trovino a pagare, tra tasse e commissioni, le tariffe più care per un servizio che, ai tempi delle vacche magre, rischia solo di peggiorare.

Un circolo vizioso che si può spezzare solo con un cambio di rotta traumatico. Perché, come ha scritto Angelo Maria Pinandi sul Corriere Economia, non si parte da un taglio, brutale e rozzo come certe imposte, del costo della politica in tutte le sue manifestazioni? Dimezziamo i parlamentari, i consigli regionali, imponiamo la fusione delle utility che sfornano cda a getto continuo. Oppure accontentiamoci delle favole, tipo la lotta contro la privatizzazione delle acque (salvo scoprire che Nicky Vendola non può abbassare le tariffe perché indebitato in sterline) o la lotta nei boschi della Val di Susa.