Le borse si sono rincorse per il mondo intero tentando un recupero dopo otto giorni di caduta continua. Wall Street ha rialzato la testa in attesa che la Federal Reserve annunci il terzo quantitative easing, insomma una nuova iniezione di liquidità. Proprio quello che i mercati attendevano fino al punto da giocare al ribasso con chiaro intento ricattatorio nei confronti della banca centrale americana. Qualcosa del genere è accaduto in Europa con la Bce spinta a comprare i titoli spagnoli e italiani.
Molti già evocano una nuova crisi finanziaria globale. È così? In attesa della palla di cristallo, guardiamo un po’ quante balle ci vengono raccontate dal circo mediatico-finanziario. Il primo punto fermo è che non siamo in un altro 2008. È vero, gli indici azionari sono scesi nel timore che la storia ripeta se stessa: un double crash seguito da un double dip. Così, nel timore di non ripetere il settembre nero di tre anni fa, rischiano di anticiparlo per davvero.
La paura alimenta se stessa, abyssus abyssum vocat. Ma le cose sono fondamentalmente diverse. Lo spiega Francesco Guerrera, che dirige le pagine finanziarie del Wall Street Journal. Allora la crisi cominciò dal basso, dal mercato, adesso viene dall’alto, dai governi. Certo, ciò deriva dal fatto che banche, imprese, famiglie sono state salvate con i soldi pubblici, non aumentando le tasse, ma il debito. Tuttavia, anche se i sintomi sembrano simili, la malattia non è la stessa.
L’altra fondamentale differenza è che le imprese erano piene di prestiti a tassi molto bassi. Quando è scoppiata la bolla immobiliare, hanno dovuto ridurre il leverage provocando una recessione. Oggi, al contrario, mettono fieno in cascina, si mantengono liquide per evitare nuovi debiti, anche a costo di rinviare gli investimenti. La ricetta per il crac del 2008 era semplice, anche se ardua: iniettare denaro liquido nell’economia e salvare il sistema bancario. Oggi c’è troppa moneta che non riesce a trovare impieghi profittevoli a media e lunga scadenza. Il cavallo non beve, come si diceva un tempo, eppure non gli manca l’acqua. Quel che fa difetto è la fiducia che guida le aspettative le quali mettono in moto gli investimenti e la crescita.
È questa la logica dietro la follia che ha preso all’improvviso le borse. Perché scendono se non siamo in presenza di bolle speculative, né di una recessione prossima ventura (Usa e Ue si muovono piano, eppur si muovono)? Se non falliscono Stati Uniti, Grecia, Spagna o tanto meno Italia? Davvero la neuro-finanza ha rimpiazzato la turbo-finanza?
La risposta più immediata è che gli indici borsistici s’abbassano perché sono saliti molto in quasi tutti i paesi (Italia esclusa). Il Dow Jones a fine luglio segnava 12 mila, nello stesso periodo del 2009 era a 9 mila. Difficile prevedere un nuovo rally senza una scossa all’insegna del binomio rigore e sviluppo. E se la svolta non c’è, s’aggiustano al ribasso.
Gli investitori non si fidano dei governi, incapaci di risanare le finanze pubbliche. Si tratta di un passaggio chiave perché un livello tanto elevato di debito deprime le possibilità di sviluppo (un per cento meno di crescita se il rapporto con il Pil supera il 90%, secondo le stime di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart). Ma non si fidano nemmeno delle imprese: tengono i soldi sotto il materasso e non li spendono. Riempiono la cassa e per investire continuano a prendere i soldi a prestito, visto che costa ancora poco. Insomma, siamo in una terra di nessuno. Ecco perché la situazione è pericolosa. Per capirlo forse ci vuole uno psicanalista più che un economista.
In questa situazione, la politica assume un ruolo più forte del solito. Il giudizio di Standard & Poor’s che ha spinto l’agenzia a togliere le tre A agli Stati Uniti è politico: le divisioni tra Repubblicani e Democratici più le incertezze dell’Amministrazione. Così come per il Portogallo che ha da poco cambiato maggioranza, la Spagna che si prepara a elezioni anticipate o per l’Italia lacerata da lotte intestine. I governi prendono cappello e, in questo gioco a rimpiattino con i mercati, mostrano il volto dell’arme anche quando sono già pronti alla resa. Ma tutti sanno bene come stanno le cose.
Davvero valgono ancora gli antichi versi di John Donne: nessuno è un’isola. Tutti dipendono l’uno dall’altro, dal più grande e potente fino al più piccolo e periferico. L’Italia è stata commissariata dalla Banca centrale europea, si è scritto. Ma alla Bce ormai c’è l’italiano Mario Draghi e la lettera a Berlusconi, firmata insieme a Jean-Claude Trichet, contiene proposte che la Banca d’Italia raccomanda da almeno tre anni. Frau Merkel si agita contro il rischio di unificare i debiti insieme alla moneta, però deve ingoiare che la Bce compri Btp italiani e Bonos spagnoli. Il velleitario Sakozy rischia di perdere tre A ormai del tutto improbabili. Per non parlare di Obama che si affida ancora e sempre alla Federal Reserve, la quale, a sua volta, deve concordare le mosse con la Bce.
Quanto ai moniti propagandistici di Pechino, sono parole al vento dell’est. Non a caso il Renmin Ribao, organo del Partito comunista, ha ridimensionato le dichiarazioni pubblicate dall’agenzia Nuova Cina: “La credibilità del debito sovrano degli Stati Uniti è in declino fin dalla crisi dei subprime – ha scritto il Quotidiano del popolo -. Comunque, poiché ha ancora uno status egemonico nel sistema monetario internazionale, tutti i paesi non hanno altra scelta che riconoscere il dollaro come la moneta chiave”.
Realpolitik, o anche buon senso. Quel che manca a quel circuito di analisti, commentatori, agenti di borsa e finanzieri che agitando l’apocalisse si paga le vacanze a Porto Cervo.