«Il downgrade del rating Usa è un giudizio negativo sull’intera politica americana, che coinvolge Obama, il Congresso ed entrambi i partiti politici. Obama può illudersi che S&P abbia sbagliato i conti, ma tutte le agenzie di rating stanno mandando un chiaro segnale: gli Usa devono “darsi una regolata”, o i titoli di Stato americani non saranno più considerati l’investimento più sicuro al mondo».
È l’analisi di Diane Lim Rogers, capo dello staff di economisti della Concord Coalition, un gruppo politico bipartisan fondato da senatori Repubblicani e Democratici, e che ha tra i suoi principali obiettivi proprio la riduzione del deficit del governo.
Qual è la sua opinione sulla legge di Obama, che innalza il tetto del debito pubblico ma taglia il deficit?
Per evitare il default era assolutamente essenziale che venisse approvato l’incremento del limite del debito, e mi fa piacere che siano riusciti a mettersi d’accordo almeno su questo. Ma il problema vero non è mai stato l’incremento del tetto al debito, ma i Repubblicani lo hanno utilizzato come argomento forte per costringere i politici a effettuare consistenti tagli alla spesa pubblica. Tuttavia, sono rimaste intatte le vecchie divergenze sui fattori principali che rendono insostenibili le prospettive di bilancio e, di conseguenza, non è stato fatto nulla di sostanziale per quanto riguarda diritti e riforma fiscale.
Perché pensa che le prospettive di bilancio restino invariate?
In questa prima fase dell’accordo sul tetto del debito i tagli riguardano solo le spese discrezionali, una porzione relativamente piccola del budget e che non rappresenta assolutamente il problema di lungo periodo. E comunque tagliare la spesa discrezionale di breve periodo in un’economia in recessione è rischioso, poiché può soffocare la domanda di beni e sevizi. Se fossero riusciti a trovare un accordo sui tagli di più lungo periodo della spesa strutturale e, dall’altro lato, sull’incremento delle entrate, avrebbero rassicurato i mercati sull’esistenza di un piano degli Stati Uniti per tornare a un bilancio sostenibile e aiutare così, invece che danneggiarla, l’economia di breve periodo tenendo bassi i tassi di interesse.
Pensa che gli Stati Uniti abbiano vissuto al di sopra delle loro possibilità negli ultimi anni, trasformando così il deficit di bilancio in un debito consistente?
Il deficit è la differenza ogni anno tra entrate e uscite (flusso, o “voci correnti”); il debito è l’accumulo di tutti i deficit nel tempo (stock, o “pendenze di bilancio”). Dunque il deficit è il tasso di crescita del debito. Gli Stati Uniti sono quasi sempre stati in deficit, ma i deficit di per sé non sono una cosa negativa (mentre la capacità di ottenere prestiti è positiva) finché i prestiti sono mantenuti a un livello sostenibile dove il reddito (la dimensione dell’economia) può tenere il passo. Dato che l’economia statunitense è cresciuta a un tasso medio del 3% annuo, un deficit inferiore o uguale al 3% del Pil viene considerato “economicamente sostenibile”. Il problema è che negli ultimi anni abbiamo avuto deficit maggiori di quelli sostenibili (“oltre le nostre possibilità”, come lei dice), e questo non semplicemente per condizioni economiche temporanee (cicliche).
Ritiene necessario cambiare il sistema consumistico degli Stati Uniti, largamente basato sul debito?
Famiglie e imprese statunitensi hanno cambiato decisamente atteggiamento un paio d’anni fa con la crisi del debito privato, quando gli istituti di credito hanno drasticamente tagliato i finanziamenti al settore privato, costringendolo a risparmiare di più e a prendere meno a prestito. Come risultato il tasso di risparmio privato è salito nettamente. Per fortuna il governo è riuscito a continuare a finanziarsi a tassi di interesse favorevoli, divenendo nel frattempo il debitore e lo spenditore “di ultima istanza”, aiutando a impedire che la recessione diventasse peggiore di quanto già era (cioè comunque pesante). Adesso la “sveglia” suona per il settore pubblico, che deve a sua volta impegnarsi a risparmiare di più.
Questa situazione è più pericolosa rispetto a quella di allora?
Ora la situazione è di maggiore allerta, perché se il governo non può più consumare/spendere dobbiamo “trovare la quadra” tra un appropriato stimolo all’economia nel breve periodo e la messa a punto allo stesso tempo di piani solidi per ridurre la spesa di lungo periodo (o incrementare le entrate). Questo può significare che dobbiamo riallocare qualche nostra spesa “di stimolo” per togliere investimenti da aree con scarso ritorno (in termini di quanto velocemente e intensamente la spesa incrementa la domanda) per dirigerla in aree più reattive.
Quali prospettive intravede per la ripresa economica e dell’occupazione negli Usa?
Le previsioni economiche non sono il mio mestiere e quindi non posso parlare con autorità. Spero che gli Stati Uniti continuino a recuperare, lentamente, nel giro di un paio d’anni, e riguardo l’economia spero che non sia difficile concepire un piano per mettere sotto controllo il deficit di lungo periodo, in modo da favorire concretamente anche l’andamento economico a breve (e non il contrario).
Standard & Poor’s ha avuto ragione ad abbassare il rating di credito degli Stati Uniti?
L’abbassamento del rating da parte di S&P è stato solo un ulteriore sintomo di come gli Stati Uniti non siano più “solvibili” come prima, e questo è certamente vero. Io non do molto peso al fatto che un’agenzia di rating etichetti gli Stati Uniti con un giudizio, qualunque esso sia, né credo sia rilevante che si discuta sui metodi di calcolo usati alla base del downgrade di S&P. Al di là di eventuali errori nei loro calcoli, il messaggio che S&P e tutte le altre agenzie di rating intendono mandare è che gli Stati Uniti devono “darsi una regolata”, altrimenti i titoli di stato americani non saranno più considerati l’investimento più sicuro al mondo.
Quindi l’abbassamento del rating deve essere visto come un atto principalmente simbolico, che non incide effettivamente sulla credibilità degli Stati Uniti? In tal caso, le reazioni delle Borse devono esse considerate eccessive?
Come ho detto, penso che sia un sintomo e non dovrebbe essere una forza trainante, perciò nella misura in cui il mercato azionario sta reagendo al downgrade in sé di S&P, e non alle fosche prospettive generali del “darsi una regolata”, allora sì, il mercato ha reagito in modo eccessivo. Ma questo è ciò che fa sempre: reagisce in modo eccessivo ed è guidato dagli “spiriti animali”.
Il downgrade è da vedere come una valutazione negativa dell’operato di Obama o, addirittura, una specie di “vendetta” di Wall Street verso il Presidente?
Non è certamente una “vendetta”, e se è un giudizio negativo della politica statunitense c’è molta responsabilità da attribuire a tutti: al Congresso, all’Amministrazione Obama, a entrambi i partiti politici e anche al popolo americano che sta appena iniziando ad accettare che tornare alla responsabilità fiscale non è semplice come dichiarare che il deficit deve sparire. Servono programmi politici che arrivino alle cause principali del problema, e serve la volontà di attuare questi piani, anche se ciò implica un sacrificio personale da parte di tutti gli americani.
Quali sono secondo lei queste cause?
Le cause principali alla base del problema sono: a) la crescita prospettata nella spesa federale per l’assistenza sanitaria, Medicare e Medicaid, dovuta alla pressione demografica combinata con la crescita del costo sanitario pro capite; b) una base fiscale insufficiente, data dal grande numero di esenzioni, riduzioni, deduzioni e dal loro costo, e dagli onerosi tagli all’imposizione fiscale dell’Amministrazione Bush, interamente finanziati in deficit .
Fino a che punto, se smette di comprare debito americano, la Cina è in grado di mettere in difficoltà gli Usa?
Più che mettere in difficoltà, la Cina può danneggiare gli Usa. Se qualcuno dei nostri investitori stranieri detentori di tanta parte del nostro debito decidesse che non siamo solvibili e che quindi non intende più concederci prestiti, allora l’economia statunitense sarebbe nei guai. Improvvisamente il nostro accesso ai capitali si inaridirebbe e i tassi d’interesse andrebbero alle stelle. Non credo che la Cina ritirerà improvvisamente tutti i suoi capitali, ma dovremmo preoccuparci della possibilità di un lento riallocamento del suo portafoglio in modo da ridurre la proprietà dei Buoni del Tesoro americani. Basterebbe questo per mettere un bel po’ di pressione sui tassi d’interesse statunitensi, dato che la Cina è il più grande possessore straniero di titoli americani. Va però detta una cosa.
Quale?
Stati Uniti e Cina sono reciprocamente dipendenti da un punto di vista economico. Se la Cina diminuisse il suo impegno nell’acquisto di titoli di Stato americani, ciò porterebbe a un aumento dei tassi di interessi pagati dagli Usa (con relativa caduta del dollaro), e a una riduzione nella domanda di beni e servizi. Il che comporterebbe una riduzione dell’importazione di prodotti dalla Cina.
(Pietro Vernizzi)