Il tarlo dei mercati non dà requie. Anzi, avanza con una logica lucida e devastante. La prima a essere colpita è stata la periferia dell’Eurozona, la cicala greca in testa. Poi, una volta varato (con evidenti difficoltà) il piano di salvataggio per Atene, Irlanda e Portogallo, il tarlo si è rivolto agli altri paesi deboli, che affondano in un debito pubblico (Italia) e privato (la Spagna) ad alto rischio.
Di fronte alla prospettiva di un crollo devastante per tutti, la Bce si è mossa a difesa di Bonos e Btp. E il tarlo, implacabile, si è rivolto verso i pilastri dell’Eurozona, cominciando dal più debole: la Francia. Il copione è lo stesso di sempre, già illustrato a inizio giugno da Edward Altman della Setr University, che aveva previsto anche nei dettagli l’attacco all’Italia, quando ancora sui nostri media e nelle dichiarazioni di banchieri, commentatori e politici ci si cullava sul fatto che “le nostre banche sono solide”.
L’attacco del tarlo passa dal sistema bancario e di lì contagia i titoli del debito pubblico. Anzi, i debiti pubblici, vista la stretta integrazione del sistema internazionale: l’infezione, infatti, ha colpito Parigi per la grande esposizione del sistema francese verso l’Italia. Ma ora minaccia di espandersi verso l’Asia o altri paesi emergenti, viste le dimensioni dei rapporti internazionali delle banche parigine con il resto della finanza globale, a partire dai Bric.
Naturalmente non è una malattia solo europea. L’epicentro della crisi è, al solito, l’America, incapace di avviare un ciclo virtuoso di riduzione del debito. È un’impotenza che mina alle radici la leadership politica degli Usa e, più in generale, dell’intero Occidente: il mediocre accordo sul tetto/tampone al deficit americano dimostra che basta un manipolo di oppositori ben motivati, il Tea Party, per paralizzare la superpotenza; in Europa, le scelte della Bce o del governo comunitario non hanno l’avallo di una consultazione popolare che, probabilmente, boccerebbe gli aiuti a Italia e Spagna (“abbiamo ipotecato i risparmi di centinaia di milioni di europei” ha scritto l’ex vicepresidente della Bce Otmar Issing).
In questo quadro, l’unica ricetta d’uscita dalla crisi passa dai tagli di bilancio e dai sacrifici. Una scelta imposta dai mercati, ma che non li soddisfa: una politica fatta di soli tagli, infatti, si traduce in nuovi cali dei consumi che, a loro volta, spingono verso la recessione. E, come ci insegna il saggio sulle crisi finanziarie di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt sulla storia delle crisi finanziarie, non è mai successo che un Paese abbia risolto il problema del debito in tempo di recessione.
Questo breve riassunto serve a dimostrare che: a) c’è molta logica nell’avanzata della crisi. Certo, nel brevissimo termine, l’andamento dei mercati è erratico, quasi incomprensibile. Ma se si guarda al di là della volatilità di giornata, emerge una direzione di marcia chiara e implacabile: il mondo che si scopre troppo indebitato, e perciò più povero, è alla ricerca di un “new normal”, ovvero di un nuovo equilibrio. Se fino a pochi anni fa era giusto valutare una società quotata fino a 18-20 volte gli utili, oggi ci si deve accontentare di 10 volte, perché in un mondo più povero anche i profitti rallentano; b) le ricette per uscire dalla depressione non sembrano più efficaci di un’aspirina di fronte a una grave polmonite. Non c’è nulla di sbagliato negli interventi che riguardano l’offerta (più produttività del lavoro, minori lacci e lacciuoli per l’impresa) o il risanamento dei conti pubblici (imposto via lettera all’Italia in bolletta dai suoi creditori che si sono impegnati a darci nuovi quattrini). Ma se non si interviene sulla domanda, queste medicine servono a poco.
Il vero nodo politico, tutt’altro che risolto, riguarda la necessità di far ripartire la crescita in un clima di pesante indebitamento. Ovvero, per dirla in altri termini, si pone un problema di redistribuzione del reddito, altrimenti il quadro sociale è destinato a degenerare. Lo si vede negli Stati Uniti, dove la battaglia sul deficit è stata uno scontro politico con connotati di classe ben precisi. Lo si vede in maniera drammatica nelle città inglesi scosse dalla violenza. Si può liquidare il problema parlando di “delinquenza” (come ai tempi di Dickens), ma, scrive il Daily Mail, “tra i dimostranti arrestati ci sono insegnanti, ricercatori universitari, adolescenti”.
Insomma, le Borse saranno pure isteriche, ma, ancora una volta, dimostrano di guardare più in là della politica o della cosiddetta società civile cui sottopongono una sfida che va assai al di là della finanza. Joseph Stiglitz, economista di sinistra e premio Nobel, lancia questa proposta: a) tassare i ricchi, come si rifiuta di fare il partito repubblicano; b) ritirare le truppe da Afghanistan, Iraq e, potremmo aggiungere, dalla Libia, chiudendo partite che costano migliaia di miliardi; c) lanciare un nuovo stimolo all’economia per riavviare il volano dell’occupazione; d) ridiscutere i termini del Medicare, cioè l’assistenza sanitaria americana fortemente sbilanciata a favore delle grandi case farmaceutiche; e) allargare il “chapter 11” al settore della casa, vietando lo sfratto degli americani che non riescono a far fronte ai mutui; come avviene per le aziende si può individuare un percorso di risanamento che consenta agli sfrattati di far fronte alle obbligazioni nei limiti delle loro possibilità. “Non riesco a vedere una ripresa economica con milioni di senza tetto” ironizza Stiglitz.
Non è detto che i cinque precetti dell’economista siano un toccasana, ma dopo trent’anni in cui si sono arricchiti (pochi) ricchi e si è fortemente indebolito il ceto medio, l’Occidente deve interrogarsi sul proprio futuro.
L’Italia, in questa cornice, può svolgere un ruolo limitato. Ma può svolgerlo, se liquida le sciocchezze che ci hanno accompagnato in questi mesi (chissà come giudicheranno gli storici del futuro il presunto trasloco dei ministeri a Monza mentre il contagio avanzava implacabile).