Dopo un mercoledì disastroso, le Borse ieri sono riuscite nell’impresa di un rimbalzo positivo, ma da quando Standard & Poor’s ha operato un downgrade sul debito americano, le turbolenze sui mercati sono decisamente aumentate, portando anche a conseguenze politiche. La stessa agenzia di rating ha motivato la sua scelta con l’instabilità politica e l’incapacità di decisione dei politici americani. Già in aprile S&P aveva espresso una previsione negativa, ma l’abbandono della tripla A sul debito a lunga scadenza per passare a un AA+, che molti altri Paesi sarebbero ben soddisfatti di ottenere, ha fatto pensare che l’accordo bipartisan sull’elevazione del tetto al debito, raggiunto in estremo e con molta fatica, sia stato considerato inefficace. Ilsussidiario.net ha chiesto a John Samples, direttore del Center for Representative Government del Cato Institute di Washington, di illustrare i principali aspetti politici che hanno portato alla decisione di S&P.



Secondo lei, Standard & Poor’s con il suo downgrade ha voluto esprimere un giudizio negativo sull’accordo raggiunto al Congresso riguardo l’innalzamento del tetto al debito e la diminuzione della spesa pubblica?

Gli analisti di S&P hanno basato la loro valutazione, in primo luogo, sulla perdita di fiducia nei leader politici. Lo stesso accordo di cui si parla fa pensare che il Presidente e i leader del Congresso non fossero in grado di attuare le riforme strutturali necessarie per ottenere un equilibrio di bilancio sul lungo termine, o almeno qualcosa che si avvicinasse a questo obiettivo. Si sono così inventati una Commissione per proporre idee su come venire a capo del deficit, con un “meccanismo da giorno del giudizio” per effettuare tagli lineari al bilancio, qualora la Commissione non riuscisse a produrre risultati. Tutto ciò non può creare fiducia nella leadership americana, ma i leader non solo i soli da accusare. Dopotutto, un numero significativo di elettori americani vorrebbe che venissero tenuti insieme il mantenimento, o l’incremento, della spesa dei programmi governativi, il taglio della crescita del debito pubblico e la conservazione degli attuali livelli di tassazione del reddito.



Il dibattito tra Democratici e Repubblicani non è stato in effetti esaltante e ha portato gli Stati Uniti e il resto del mondo sull’orlo di una crisi ancora peggiore. Come si può spiegare tutto questo?

Bisogna guardare innanzitutto agli interessi dei politici eletti. Il Presidente Obama ha bisogno del sostegno della base del Partito Democratico e può appoggiare solo tagli limitati alla spesa federale, pena la non rielezione. Dal canto suo, la base Repubblicana si oppone a tasse più elevate. L’aumento di spesa verrebbe infatti finanziato soprattutto con un aumento dell’imposizione sui redditi e larga parte dell’elettorato Repubblicano finirebbe per pagare l’incremento, o anche il mantenimento, degli attuali livelli di spesa. In conclusione, i leader di entrambi i partiti incontrano gravi difficoltà nella ricerca di un compromesso. In generale, il livello di antagonismo e di sfiducia reciproca tra chi si occupa di politica è ora molto alto negli Stati Uniti e ogni “vittoria” per una parte è vista come una “perdita” per l’altra.



 

Molti osservatori pensano in effetti che i due partiti siano ormai dominati dalle loro ali estreme e che questo sia un male per il Paese. In particolare il Tea Party viene considerato troppo rigido. Lei è d’accordo con questa visione?

 

È strano che chi ritiene che nessun programma di spesa possa essere tagliato o cancellato (a parte quelli relativi alla difesa, che hanno invece l’appoggio dei Repubblicani) non sia considerato un estremista. Tuttavia, è proprio questa la posizione della leadership Democratica e più in generale del partito. Il Tea Party ha nel frattempo costretto i leader Repubblicani a rimanere fermi nel tagliare la spesa federale in rapporto al Pil del 2% nel giro di dieci anni. Se questo obiettivo venisse raggiunto, la spesa rimarrebbe comunque di un 2-3% di Pil più alta di quanto sia stata negli Usa nel corso dell’ultimo secolo. È questo un risultato da “estremisti”? Pura propaganda di gente che si guadagna da vivere difendendo lo status quo.

 

S&P fa parte del gruppo editoriale McGraw-Hill. Questo ne condiziona in qualche modo l’indipendenza? E McGraw-Hill ha qualche particolare tendenza politica?

No, non credo che sia così. Mc Graw-Hill è un editore che ha gran parte del suo mercato in libri di testo sui vari aspetti dell’amministrazione pubblica e in altri prodotti editoriali nel campo dell’istruzione. Non vedo come potrebbe trarre vantaggio da turbolenze sui mercati finanziari.

 

Fuori dagli Stati Uniti, l’abbassamento del rating è stato percepito come un’ulteriore prova di una diminuzione della centralità americana. L’atteggiamento aggressivo della Cina sulla scia della decisione di S&P ha rafforzato questa opinione. Siamo veramente in presenza di uno spostamento nell’equilibrio delle potenze?

 

Gli Stati Uniti rimangono la potenza militare dominante. Tuttavia, come si è visto in Afghanistan, in Iraq, e ora in Libia, la forza militare non si traduce per gli Usa in guadagni politici o economici. Per quanto riguarda le questioni interne, gli americani consumano più spesa pubblica di quanto siano disposti a pagare e si rivolgono alla Cina, il cui popolo è altamente produttivo e risparmia parecchio. Questa dipendenza dalla Cina, però, non sembra limitare la posizione americana all’estero. Può costringere, tuttavia, a riconsiderare la propria spesa pubblica “discrezionale”. Gli americani sembrano essere deviati sotto questo profilo: vogliono avere benefici senza pagarli e votano per i politici che glielo promettono. È questa immoralità, una caduta alla quale non vi è una chiara risposta pubblica, che dovrebbe preoccupare.

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