Alla fine degli Anni Trenta (esattamente nel 1937), venne prodotto in Francia un film di alta qualità (lo diresse Jean Renoir), e di grande successo, “La Grande Illusione”, in cui si prevedeva, non solo si auspicava, l’amicizia tra francesi e tedeschi: sappiamo tutti ciò che avvenne due anni dopo, nel settembre del 1939.



Nel nostro micro, “La Grande Illusione” è che il decreto legge di cui sta iniziando l’iter per la conversione parlamentare possa arrestare i “sentimenti” dei mercati finanziari nei confronti dell’Italia. Ci potrà forse essere qualche rialzo temporaneo, ma è difficile prevedere un duraturo cambiamento di rotta. Non solamente perché, come illustrato su ilsussidiaro.net dell’8 agosto, dopo avere ostentato sicurezza e accusato di allarmismo (e di sabotaggio) chi la pensava diversamente, si è dovuto ammettere che la nave stava affondando (e che chi ne ha pilotato la politica economica e finanziaria per diversi anni qualche responsabilità deve pure averla). Ma per ragioni di breve e lungo periodo molto più profonde e ben documentate in scritti recenti (che i suoi collaboratori avrebbero dovuto leggere se non fossero stati in ben altre faccende affaccendati).



In primo luogo, circola da alcune settimane un saggio in uscita sul prossimo numero della Review of Financial Studies sulla volatilità dei mercati (e a chi rende) quando la “politica è precaria”. Ne sono autori Maria Boutchkova dell’Università di Leicester, Anthony Durnev dell’Università dello Iowa, Hitesch Doshi dell’Università McGill di Monréal e Alexander Molcanov della Massey University. In breve, una collaborazione intercontinentale per esaminare in che misura il rischio politico influenza la volatilità.

Il messaggio è chiaro: quanto più un Paese è “aperto” – e l’Italia, grazie al Cielo lo è – più i suoi partner non si fanno infinocchiare da decreti e decretoni (quello in arrivo al Parlamento è di 32 pagine) ad alta probabilità di avere articoli interi impallinati dalle Camere e dai Tribunali. Il decreto accentua l’incertezza politica: basta questo a scoraggiare i mercati.



In effetti, parte dei suoi contenuti sono l’opposto di quanto sostenuto, con preoccupazione, da Paul De Grauwe in “Governance of a Fragile Eurozone” pubblicato due settimane fa dal Center for European Policy Studies – e su cui si spera si sia meditato a Via Venti Settembre: non sono una serie di misure straordinarie a curare le falle dell’Eurozona, ma una convergenza verso l’alto di produttività e competitività (in materia, il decreto contiene soltanto lo spauracchio, difficilmente sostenibile in punta di diritto, di togliere la tredicesima a tutti i dipendenti di un’amministrazione che non attua i desiderati risparmi di bilancio, obiettivo che sarebbe più semplice raggiungere azzerando le “contabilità speciali” fuori bilancio dei dicasteri che le utilizzano – solo il Ministero per i beni e le attività culturali ne ha 324! – spesso per ragioni particolaristiche).

La fretta, inoltre, pare essere stata cattiva consigliera: nessuno sa come abolire le Province e come ridurre i Consiglieri Cnel nel lasso di tempo prescritto. Ne sortirà una “Gran Baraonda”, come quella della rivista omonima di Wanda Osiris e Renato Rascel. Ai mercati di solito le baraonde non piacciono.

Oltre a questi saggi da catalogarsi “accademici” (alcuni Ministri utilizzano l’aggettivo con disprezzo), ci sono “voci”. È bene non seguirle, per non fare la fine di Giovanna D’Arco. Occorre, però, ascoltarle: la stessa Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione ha pubblicato ben tre libri (in uno con un saggio del Premio Nobel Klein) per documentare come esse incidono il mercato.

Alcune vengono da Lafayette Square (dove ha sede il Tesoro americano, nel quale – come documentato su ilsussidiario.net all’inizio di giugno il nostro ministro dell’Economia e delle Finanze non ha molti amici), altre da Langley (sede della Central Intelligence Agency). Concordano nel spifferare che in settembre, proprio quando la conversione in legge del decreto sarà in discussione in Parlamento, affioreranno particolari inediti e anche piccanti su chi è stato a lungo il beniamino del Ministro. Questa è materia per Dagospia non per noi.

Più serie sono le voci che hanno origine dalla Mitte di Berlino, a FriederichStrasse e dintorni: ai ministeri dell’Economia e delle Finanze della Repubblica Federale si comincia a pensare che senza un’azione sul cambio l’Italia non ce la farà a evitare una recessione, perché dal 1992 ha aumentato di molto la pressione tributaria, ridotto di un poco la spesa pubblica, ma fatto poco o nulla per dare produttività e competitività tale da tenere testa ai concorrenti dell’Eurozona.

Questo argomento è molto sentito dai mercati. Ma l’euro non è una porta girevole da Gran Hotel; è irreversibile: quando si è dentro o ci si comporta di conseguenza o si soffre.