Il male oscuro che sta contagiando l’Europa è un’inevitabile ma gravissimo effetto collaterale dell’impoverimento della società indotto dal trasferimento dell’asse del benessere dall’Atlantico del Nord al Pacifico Sud-Orientale. Si tratta dell’invidia sociale e della rabbia fondamentalista contro gli immaginari responsabili del progressivo e inarrestabile declino del reddito personale e delle opportunità di incrementarlo o anche solo di difenderlo che hanno gli occidentali.
La gente si accorge di star diventando povera e cerca il capro espiatorio di turno con cui prendersela. In certi casi, ne trova di meritevoli dei più severi trattamenti: come la “casta” politica italiana, costosa, inefficiente e disonesta su livelli da record. Eppure, perfino criticare questa casta – cosa in sé e per sé giusta – non diventa un passo in avanti sulla strada della soluzione dei problemi. Perché i problemi derivano da cause macroeconomiche e geopolitiche che nulla hanno a che vedere con i pur esecrabili furti degli assessori, con un Presidente del consiglio in caduta libera o col malcostume criminoide delle varie P3 e P4.
Il fenomeno vero – l’impoverimento delle nostre società – è impressionante e sostanzialmente ingestibile. Tutti i paesi che siamo stati da sempre abituati a considerare ricchi (Nord America ed Europa Occidentale), negli ultimi vent’anni sono stati indeboliti silenziosamente dalla concorrenza sleale dei paesi a basso costo del lavoro. L’apertura indiscriminata delle frontiere alle merci prodotte in regimi di schiavitù sociale – perché non si devono usare termini più morbidi per definire i metodi di produzione finora adottati in Cina, Corea, Vietnam, ecc. – ha fatto sì che una crescente fetta di valore aggiunto si trasferisse dalle vecchie alle nuove potenze industriali.
In una prima fase, le potenze economiche emergenti, miracolate dal Wto per ordine dei poteri forti americani, hanno ricompensato non tutto l’Occidente, ma soprattutto Stati Uniti e Germania, di questa manna normativa concessa loro, consentendogli di impiantare sul proprio territorio i transplant e di abbattere così a loro volta i costi di produzione, trasformandosi da economie industriali in economie di servizio, ma conservando pur sempre un’alta redditività.
Ora questo baratto economico si sta sostanzialmente esaurendo, perché queste potenze, innanzitutto la Cina, hanno imparato a far da sé e stanno dando filo da torcere ai produttori occidentali impiantatisi in terra cinese: quindi anche quel rivolo di ricchezza di ritorno che rifluiva da Est verso Ovest sta inaridendosi. E la Mercedes, oggi strafelice di vendere tante vetture in Cina, tra qualche anno ne venderà ben poche, non appena i cinesi avranno imparato a copiarle al meglio, autarchici come sono. A distinguere le berline di lusso cinesi prodotte dai cinesi dalle Mercedes resterà il marchio: ma anche quello durerà poco, com’è accaduto in Giappone, dove i miti delle automobili americane, durati fino a tutti gli anni Settanta, sono stati oscurati dal successo delle auto di lusso locali, per esempio la Lexus, ben copiate dai modelli occidentali, ma meno costose.
Tutta questa premessa per dire che l’impoverimento dell’Occidente, indotto da questo genere di macrofenomeni, non può essere certo guarito da una legge finanziaria fatta un po’ meglio o un po’ peggio. A qualcosa sarebbe servito – ma ormai la frittata è fatta – non chiudere le frontiere ma graduarne l’apertura, in modo da dilazionare nel tempo l’effetto concorrenziale (sleale, ricordiamocelo!) di quelle produzioni contro le nostre, dando appunto tempo alle industrie occidentali di recuperare competitività, ma soprattutto dando tempo a quelle orientali di perderne: già, perché è chiaro che il crescente benessere degli orientali sta inducendo in essi attese e pretese di benessere che stanno conducendo anche in Cina, Vietnam e Corea a una lievitazione dei loro costi e dei loro oneri sociali, riducendo la forbice di convenienza a vantaggio delle loro produzioni. Ma questo fenomeno è talmente lento, che avremo tempo, intanto che si compie, di chiudere bottega in tutte le nostre fabbriche.
E torniamo a noi, e ai nostri problemi. Come reagiscono le classi politiche occidentali? Intanto, farfugliando rimedi palliativi. Poi, tagliando spesa sociale; infine, additando al pubblico ludibrio questa o quella categoria sociale asseribilmente colpevole di tutti i mali collettivi. In Italia è il turno degli evasori fiscali. Che sono – diciamolo subito – una piaga del Paese: se è vero, com’è vero, che l’evasione fiscale sottrae all’erario 120 miliardi di euro di gettito, è chiaro che se tutti pagassero le tasse non solo saneremmo i conti pubblici, ma in dieci anni potremmo veramente riportare il debito pubblico entro quel rapporto virtuoso del 60% del Pil che l’Europa prescrive come ottimale.
Ma l’evasione fiscale italiana è un fenomeno talmente esteso nel Paese e talmente interconnesso con tutte le altre caratteristiche socio-economiche del nostro territorio e della nostra popolazione che non la si può liquidare come se fosse semplicemente una piaga da disinfettare e guarire o peggio un arto incancrenito da amputare. Ed è purtroppo questo il messaggio – peraltro, molto incisivo sul piano della tecnica di comunicazione – trasmesso dall’Agenzia delle Entrate con il suo spot: «Stop a chi vive a spese d’altri». Oppure: «Chi evade le tasse è un parassita sociale».
La cosa è un po’ più complicata. Parecchio più complicata. Innanzitutto, l’evasione fiscale italiana va divisa in almeno quattro categorie. La prima è quella sussistenziale, diffusissima soprattutto nelle aree svantaggiate, che consiste nella “vita in nero” dei piccoli e piccolissimi artigiani, agricoltori, commercianti di prossimità che risultano nelle statistiche come disoccupati e in realtà campicchiano senza partita Iva né libretto di lavoro, ma grazie a quella cosiddetta “economia del pomodoro” che non può essere sanata imponendo loro un’emersione che non avrebbero la forza economica di sostenere. A una famiglia della provincia di Matera che viva con mezzo ettaro di orto coltivato dal padre, qualche lavoretto edile del figlio maggiore, il baby-sitting estivo della madre, bastano mille euro al mese di reddito in nero, che anche a voler fare emergere andrebbero in ogni caso lasciati esentasse e che dunque sarebbe soltanto un costo amministrativo accertare.
Poi c’è una seconda tipologia di evasione, quella post-elusiva, che consiste nell’adottare tutta una serie di comportamenti fiscalmente furbi che si posizionano al confine tra la lecita ottimizzazione fiscale e la furbata para-evasiva: tutti quelli che in realtà lavorano in giro, ma sostengono di avere in casa un ufficio essenziale alla loro attività, per poter detrarre dall’imponibile qualsiasi costo, anche quelli che sosterrebbero comunque, a prescindere dal lavoro che svolgono, dall’imbianchino all’idraulico, al cambio dell’arredo che con l’ufficio non ha niente a che vedere, ma viene rappresentato sempre come essenziale. Questi super-elusori sono una parte consistente del problema, ma non sono loro la vera piaga.
Infine c’è la fascia dei veri e propri evasori fiscali, quasi tutti – ovviamente – lavoratori autonomi, professionisti, artigiani e (sempre meno) esercenti commerciali, che non emettono mai fatture attive e scontano invece fino all’ultima lira le fatture che chiedono ai loro fornitori in modo da risultare sempre in perdita fiscale. Sono loro la vera, e unica, malattia sociale da sanare, perché se pagassero le tasse resterebbero comunque benestanti.
La quarta categoria è invece ben più colpevole dei semplici evasori, perché è la categoria dei criminali, cioè di tutti quelli che hanno lavori di copertura, fiscalmente anche in regola, e in realtà esercitano attività delinquenziali, dallo spaccio alla prostituzione, ai furti, alle bische, che sono “in nero” per definizione.
Ora, contro le prime due categorie combattere sul piano dell’opinione pubblica non ha senso. I poveracci è meglio lasciarli stare; e contro gli elusori, lo siamo un po’ tutti (dipende dal commercialista al quale ci rivolgiamo), sarebbe molto più efficace fare quella riforma di sgravi e detrazioni che si promette da anni e non si attua mai. La quarta categoria va combattuta dalle forze dell’ordine e dalla magistratura (e non apriamo alcun capitolo su di esse, per non andare eccessivamente fuori tema).
Resta da combattere la terza categoria, quella degli evasori “veri”. Ebbene: non la si deve combattere né invitando alla delazione fiscale, come subliminalmente fanno gli spot dell’Agenzia delle Entrate, né tantomeno gettandoli al pubblico ludibrio. Non sono metodi civili. Scatenare la caccia all’evasore è come lanciare un fiammifero acceso in un barile di benzina, la benzina della rabbia sociale. Per non vedere quanto prima anche nelle strade delle città italiane le ribellioni violente e purtroppo tragicamente inutili viste a Londra, bisogna maneggiare con cura questo genere di detonatori. Non conducono a niente di buono.
È invece triste vedere che nessuno osa proporre, neanche in questa fase di caos propositivo – dove se non altro nessuna idea, per balzana che sia, riesce a indignare nessuno – una proposta di riforma fiscale rivoluzionaria, imperniata su una discesa delle aliquote di prelievo, su un sostanziale contemporaneo azzeramento del sistema di detrazioni-deduzioni e su un incrudelimento feroce delle sanzioni per gli evasori scoperti tali, che non dovrebbero più potersela cavare con dei concordati, ma dovrebbero veder accoppiare al pagamento delle imposte evase aggravate dalla pena pecuniaria incrementale (che già c’è), la condanna penale per il reato di evasione.
Questo è il punto: il governo che ha inutilmente varato il reato di clandestinità, e ancor più baggianamente se l’è fatto bocciare dall’Europa senza opporsi, dovrebbe ora saper ripristinare il reato di evasione fiscale. Tasse più leggere, deduzioni e detrazioni rarissime, rischi fortissimi per chi evade. Sarebbe forse una ricetta migliore di quelle finora perseguite. E sarebbe meno pericoloso che criminalizzare gli evasori incarnandoli, quasi lombrosianamente, in testimonial dall’espressione losca di spot televisivi populisti.