Insomma, come avrete letto su tutti i giornali e ascoltato da tutti i telegiornali, il Napoleone in sedicesimi e la Frau Nein hanno deciso, senza chiedere conto a nessuno, una nuova architettura economica e finanziaria europea. Risposta di Wall Street: dump, ovvero vendi.

I mercati, si sa, non si fanno prendere in giro come i politici e i cittadini e alla lezioncina di buon governo dei leader di due paesi freschi freschi d’iscrizione al “club della crescita zero”, vedi il dato del Pil tedesco di martedì, rispondono come farebbe Totò: con una sonora pernacchia.



Se l’Italia avesse un governo e non un direttorio in stile Circo Barnum commissariato dalla Bce, avrebbe alzato la voce chiedendo a nome di chi e in base a quali accordi Francia e Germania si permettono di dettare regole e presentare ricette bypassando Commissione Ue, Europarlamento ed Eurogruppo. Ma si sa, noi siamo un Paese dove un tributarista di Sondrio si crede un filosofo dell’economia e impone la Robin Hood Tax sul comparto energetico, mandando a picco il valore delle azioni e mettendo a forte rischio i dividendi per gli azionisti, per la gran parte quel ceto medio già massacrato dal cosiddetto contributo di solidarietà (chiamare le cose con il loro nome, ovvero aumento dell’Irpef e furto con destrezza a chi già paga le tasse, pareva inelegante?).



Ma al di là del vaniloquio di Cip e Ciop all’Eliseo, è interessante il fatto che – una volta per tutte – sia stata scritta a caratteri cubitali la parola “no” di fronte al concetto di eurobonds. Per una volta, Cip e Ciop non hanno torto e proverò a spiegarvi perché. Francamente, fin dall’inizio ho avuto forti dubbi sul fatto che gli eurobonds possano funzionare nel mondo reale allo stesso, salvifico e taumaturgico modo in cui vengono proiettati nel mondo politico, ad esempio dall’eclettico tributarista di Sondrio.

Perché? Proviamo un esercizio empirico e immaginiamo come questo fatidico eurobond sarebbe prezzato e con quale rating. Prima di tutto, un’inezia. Ovvero, il fatto che una qualche entità dovrà anche emetterli quegli eurobonds e, soprattutto, che occorre una qualche forma di finanziamento per pagare queste miracolose obbligazioni comunitarie. Certo, può sembrare poco elegante parlare come prima cosa di soldi, ma l’economia e la finanza si basano ancora su un mondo dove potenziali prestatori ritengono importanti inezie come essere ripagati, piuttosto che le magnifiche sorti e progressive di Cip e Ciop o le tasse di Sherwood del tributarista di Sondrio. Molti emettitori sovrani, infatti, sono in grado di emettere debito perché possono utilizzare le tasse per pagare quel debito in futuro: così in teoria, mentre all’atto pratico molte nazioni possono pagare le loro attuali obbligazioni solo emettendo nuovo debito.



Comunque sia, non c’è alcuna speranza che la presunta Entità di Emissione Europea, chiamiamola così, possa ottenere una qualsiasi forma di autorità impositiva nel breve termine per racimolare denaro. Quindi, gli eurobonds saranno garantiti solo dal trasferimento di pagamenti degli Stati membri o da garanzie. In entrambi i casi, l’ammontare di questo supporto deve essere definito. A ogni nazione deve essere assegnata una porzione di debito che deve ripagare o garantire. Nei fatti, il fondo salva-Stati o Efsf, utilizza “ultra-garanzie” per gettare tutto il peso del debito sulle spalle delle nazioni con rating maggiore.

Ecco spiegato perché la Germania, già spaventata dall’attuale assetto da 440 miliardi, è nettamente contraria a qualsiasi ulteriore ampliamento: tanto più che, alla luce della cronaca di questi giorni, non si sa per quanto il rating AAA resterà appannaggio della Francia, ponendo in essere la minaccia di un aggravio dei costi che potrebbe arrivare nella peggiore delle ipotesi all’80% del Pil tedesco. Insomma, già così i problemi non mancano. Ora, nei fatti ci sono due possibili opzioni per strutturare la ratio trasferimento dei pagamenti/copertura degli eurobonds e sono frutto di uno studio americano che prende in esame il Paese più forte tra i forti (sulla carta) – la Germania – e il più forte tra i deboli, ovvero l’Italia.

Prima opzione, ogni nazione garantisce supporto economico in relazione diretta all’utilizzo. Ovvero, se l’Italia intende utilizzare il 10% del denaro ottenuto tramite la vendita di eurobonds, a quel punto sarà responsabile per il pay back del 10% dell’emissione. C’è, però, oltre al problema della struttura, quello del rating e dei rendimenti. Altro esempio, ovvero pensiamo all’eurobond come a un’obbligazione al 50% tedesca e al 50% italiana, ovvero di due paesi i cui bond decennali pagano rispettivamente il 2,3% e circa il 5% e i cui rating sono AAA e Aa2. Quindi, con un’emissione al 50% tra i due paesi è più che probabile che il rating dell’eurobond sarebbe Aa2, visto che l’outlook negativo sarebbe incorporato nel processo di rating e che le agenzie di rating calcolano la valutazione “media” in un modo che vede i rating minori impattare più di quanto non accade per semplici calcoli avarage (prima balla da smentire è proprio quella che mercati e agenzie di rating accetterebbero la copertura AAA di Germania e Francia per l’eurobond garantendogli quindi medesimo rating, non prezzando ovvero sul mercato il fatto che dietro quell’obbligazione ci sono tre governi già in default e due – Italia e Spagna – mantenuti a galla artificialmente dalla Bce. Vi ci caschereste, visto poi che la tripla A della Francia è a tempo e la crescita sia di Berlino che di Parigi è a zero?).

Quindi, il rendimento medio di questo eurobond dovrebbe essere del 3,7%: ecco l’inghippo, l’eurobond servirebbe unicamente a trasferire i costi degli interessi dalle nazioni deboli a quelle forti, visto che la Germania pagherebbe per un eurobond decennale il 3,7% di rendimento invece del 2,3% che paga per i Bund a 10 anni. Perché dovrebbe farlo? Per sentimento europeista? Pensate che i cittadini tedeschi accetterebbero che il loro governo paghi per gli interessi sul loro debito e anche come sussidio dei tassi italiani? Ovviamente l’eurobond non sarebbe formato solo da due nazioni, ma il principio è identico anche per l’Europa come un insieme.

Certamente i mercati finanziari sarebbe felicissimi, così come le nazioni più deboli che godrebbero di nuovi “sussidi”, ma le nazioni tripla A cosa diranno? Per quanto il mantra del “se fallisce pincopallino, fallisce l’Europa” farà presa su cittadini sempre più tartassati? Vediamo ora una possibile, seconda opzione, ovvero un metodo che leghi garanzie o trasferimenti di pagamento al Pil o altri dati macro. In questo caso, il benefit starebbe tutto nel fatto che rendimenti e rating ricadrebbero fermamente sulle spalle dei paesi più forti: ovvero, rating e rendimento sarebbero migliori rispetti a quelli stabiliti da un metodo basato unicamente su chi mette il denaro e quanto ne mette.

Il Pil tedesco è 1,6 volte quello italiano, più o meno, e quindi facciamo conto che nel fatidico eurobond la Germania fornisca il 60% e l’Italia il 40%. Il rating potrebbe essere Aa1 e il rendimento circa del 3,4%, visto il maggiore impatto della Germania sullo strumento dell’emissione, peccato che arrivando al vile denaro l’Italia ha 1,6 trilioni di euro di debito collocato contro 1,2 trilioni della Germania: potrà l’Italia utilizzare il 55% dei proventi del collocamento, pur avendo garantito solo il 40% dei pagamenti dell’emissione? Il rischio è che la Germania debba farsi carico effettivamente dell’esposizione creditizia italiana.

Se infatti l’Italia prende a prestito il 55% del denaro, in linea con la ratio di debito collocato rispetto alla Germania e non fosse in grado di ripagarlo, cosa succederebbe? Che gli investitori in eurobonds incorrerebbero in perdite sul 40% garantito dall’Italia, ma batterebbero cassa alla Germania per i pagamenti sul 60%. La Germania, così, non sarebbe solo il sussidio fisso dei costi di finanziamento italiani, ma si prenderebbe rischi ulteriori, ovvero pagare di più e imbarcare anche il rischio creditizio italiano. Anche in questo caso, l’esempio a due può essere esteso all’eurozona come entità. E con la Francia a rischio di perdere il rating AAA, questa preoccupazione non farebbe che accrescere i costi medi di finanziamento di Parigi e andare a colpire l’esposizione diretta sui membri più deboli.

Insomma, come confermava lo studio accademico del 2004 “The inefficiency of splitting the bill” compiuto da Gneezy, Haruvy e Yafe e pubblicato sull’Economic Journal, chi a cena decide di pagare “alla romana” paga mediamente il 36% in più di chi decide di pagare individualmente. Se vale per un gruppo di amici che va al ristorante, pensate che non debba valere per tedeschi, olandesi, austriaci e finlandesi prima di sedersi al tavolo degli eurobonds con greci, spagnoli, portoghesi, irlandesi e – ahimé – italiani?

Per una volta Cip e Ciop hanno ragione. Per il resto, si attacchino al Pil visto che dopo aver depresso Wall Street, il loro bel discorsino di martedì ha spedito i futures sull’oro a New York al record di 1786,40 dollari l’oncia. E questo nonostante venerdì scorso il Cme Group, mercato leader per i derivati sulle commodities metalliche, abbia alzato al 22% i margini di deposito per l’acquisto di oro: se non si chiama avversione al rischio questa…