In un articolo pubblicato ieri, il Financial Times rilancia una proposta che in realtà, come ha spiegato a IlSussidiario il professor Massarutto (docente di Politica economica ed Economia pubblica presso l’Università di Udine), non è niente di nuovo. La scoperta dell’acqua calda, come scherzosamente l’ha definita usando una metafora perfetta per l’argomento trattato.
Nell’articolo, l’autorevole quotidiano inglese riprende dunque il tema di una industria globale e multinazionale dell’acqua: “globale e multinazionale”, viene definita.
Il futuro del settore dell’acqua dicono gli autori dell’articolo, deve essere impostato sul modello delle imprese che si occupano di energia ed elettricità. Per il Financial Times, “l’acqua potrebbe diventare una delle grandi industrie del XXI secolo”. Le industrie dell’acqua devono cioè uscire dai confini nazionali per accettare la sfida globale, cosa che finora non si è realizzata”.
Secondo Massarutto, proprio le aziende idriche inglesi negli ultimi decenni hanno già tentato questa strada, per ripiegare verso casa con risultati sconfortanti. “Negli anni 90 queste imprese” spiega “hanno provato a intensificare prima in Paesi europei poi in paesi poveri del terzo mondo la loro attività. Ne sono tornate con risultati scarsi o veri e propri insuccessi”. Per Massarutto, “sono vent’anni che ci si interroga su come sia possibile dare corso e gestire lo sforzo per dotare di infrastrutture idriche prima di tutto le megalopoli dei paesi emergenti e quindi raggiungere con servizi igienici la popolazione mondiale che ne ancora priva”.
Solo insuccessi per gli esperimenti di globalizzazione delle imprese indiche? “Non esattamente. Il settore dell’acqua significa una sfida tecnologica enorme che richiede investimenti e ricerche immani e affrontabile in una ottica industriale. Negli ultimi due decenni alla consapevolezza di incrementare il quadro di impresa internazionale ha fatto seguito una ondivaga serie di risultati: a volte di successo come in Cina e nel Sud Est asiatico, altre volte di difficoltà come in America latina e Africa”.
Come mai questi insuccessi? “Perché per fare ciò occorre trovare risorse finanziarie e coinvolgere il mercato dei capitali in modo da coprire i rischi e le aspettative che esso affronta, senza che il prezzo dell’acqua diventi qualcosa al di là delle possibilità dei cittadini. Se in Paesi come il nostro questo non è un problema eccessivo, in Paesi dove il livello di vita pro capite è molto basso è un problema. Infatti tutte le soluzioni messe in campo fino ad oggi si incartano su questo punto: nel fatto che il venditore privato per essere disponibile a fare certi investimenti arriva a proporre tariffe che possono raggiungere cifre che in rapporto al reddito di un Paese sviluppato possono non essere alte, ma che in un Paese povero diventano problematiche”.
Com’è esattamente oggi la situazione in questi Paesi poveri? “Va detto che la popolazione di questi Paesi in attesa che vengano portati i tubi dell’acqua in casa non rimane senza. La comprano invece a prezzi molto alti da rivenditori privati. Ci si avvale poi di servizi igienici precari e gestiti in modo collettivo in mezzo alle strade. Chiunque abbia girato un po’ nei Paesi del terzo mondo è consapevole di questa situazione. Ancora oggi a Pechino, capitale di una delle più grandi potenze industriali del mondo, la disponibilità di servizi igienici nelle case non è ancora una realtà per tutti. Ci si avvale di servizi collettivi dove pagando pochi soldi si entra, si fa pipì, ci si fa la doccia, etc.
La popolazione di questi Paesi paga già molto caro il prezzo dell’acqua. Pagherebbe meno se si entrasse in una logica di servizio a rete come lo conosciamo noi. Si tratta tuttavia di fare investimenti elevati”.
Nell’articolo del Financial Times si dice che le aziende idriche inglesi sono quelle maggiormente in grado di introdursi sul mercato internazionale e a livello globale: “Io non lo credo. E’ vero che l’industria idrica inglese ha delle grandissime capacità dal punto di vista ingegneristico, ricordiamo che fu proprio in epoca vittoriana che si definì il servizio idrico moderno come oggi lo consociamo tutti. Ma queste compagnie non sono altrettanto abili a gestire la parte commerciale del servizio. Le uniche due vere società infatti che operano con successo a livello internazionale e globale sono francesi. Queste hanno sviluppato un modello diverso da quello inglese che si basa, un po’ come il nostro, sul monopolio assoluto sul territorio nazionale e arrivando anche a quotarsi in Borsa”.
Qual è il motivo allora del ritorno di interesse da parte inglese per l’argomento acqua? “Credo che oggi se ne riparla perché in tempo così turbolenti l’investitore per assicurare i suoi risparmi o i fondi pensioni è alla ricerca di nuove fonti economiche che garantiscano guadagni non a breve tempo, ma una sorta di parcheggio sicuro a lungo periodo e l’acqua può rappresentare questa possibilità perché se c’è un bene di cui avremo bisogno per sempre questo sono i servizi idrici”.
Ci sono imprese italiane che operano all’estero come quelle inglesi e francesi? “Sì, ad esempio l’Acea di Roma che ha lavorato molto bene e con successo in America latina, a Bogotà. Le imprese italiane, come quelle inglesi, vengono da una tradizione di servizio radicato sul territorio nazionale, non hanno una tradizione culturale del proporsi all’estero, ma le possibilità ci sono. La chiave di un progetto internazionale è quella di riflettere non sul tipo di impresa, ma sul tipo di contratti che le imprese stipulano con gli enti locali: decidere cioè se investire, gestire, limitarsi a servizi tecnici. Ci sono molte gamme di coinvolgimenti possibili, la Acea ne ha sperimentati vari con certo successo”.
In Italia, anche alla luce dei recenti referendum contrari alla privatizzazione dell’acqua, come sarebbe vista la proposta di un mercato globale e multinazionale dell’acqua? “Io sono stato fra quelli che sui referendum mi sono schierato in modo fortemente e critico contro la campagna referendaria benché io non sia un sostenitore della legge Ronchi. Non sono un privatizzatore a oltranza e neanche un difensore dell’acqua pubblica a oltranza. Non è il gestire l’acqua il problema, ma il flusso finanziario di cui il gestore si avvale. E’ probabile che le imprese italiane in un mercato nazionale asfittico e bloccato come il nostro, decidano di rivolgersi con più interesse al mercato straniero dove possono trovare il modo di svilupparsi. Per quanto riguarda il referendum, credo che nella peggiore delle ipotesi ci fa fare un passo indietro di vent’anni, a prima della legge Galli. Penso che alla fine si troverà una soluzione all’italiana, ma per qualche anno ci sarà una impasse per timore di sollevare polveroni in ricorsi e controricorsi da parte dei referendari che terrà il mercato bloccato e fermo”.