«La Fiat continuerà a fare auto. Ma la vera domanda è che cosa ha intenzione di fare l’Italia, se l’Italia ha voglia di fare auto. È necessario creare le condizioni perché si investa nel Paese». Così, parlando al Meeting di Rimini, John Philip Elkann ha ribaltato i termini della questione sollevata da Il Corriere della Sera proprio alla vigilia degli incontri di Rimini.



Non si tratta di andare a Canossa perché “oggi la Fiat ha bisogno dell’Italia”, come chiudeva l’editoriale di prima pagina del quotidiano di via Solferino. Semmai l’azienda, che fa capo a un gruppo familiare che nel suo passato” ha affrontato tante tempeste”, non cambia la sua missione di grande produttore di auto. Ma si domanda se l’Italia ha la credibilità per continuare a un essere un grande protagonista nell’industria dell’auto, cosa che richiede scelte precise per essere competitivi sui mercati internazionali senza farsi troppe illusioni sulla domanda interna, ai minimi dal 1996, l’unica su cui potrebbe incidere (e non di molto) l’aiuto diretto della politica. Piazza Affari, finalmente, applaude.



Insomma, il processo alla Fiat e, in particolare, a Sergio Marchionne, si trasforma in un processo ai ritardi e ai limiti culturali della classe dirigente di casa nostra. Gli alibi non valgono più: o il Paese torna a creare ricchezza oppure non ha futuro. Un giudizio che accomuna Elkann e Sergio Marchionne al presidente Giorgio Napolitano, cui non a caso i vertici Fiat hanno reso omaggio domenica a Rimini, rivelando contatti precedenti di cui non c’era traccia nelle cronache.

La Fiat, lungi dal preparare gli scatoloni per il trasloco a Detroit, mantiene la testa italiana anche se, per scelta e per necessità, rifiuta di piegarsi ai rituali e alle furberie della vita politica nostrana. È un comportamento “di destra”, quando Marchionne esige per le fabbriche italiane la stessa libertà di azione di cui Fiat gode in altri Paesi, dagli Usa al Brasile, e al Messico e alla Polonia. È un atteggiamento “di sinistra”, quando il gruppo invoca “una maggior credibilità”, cosa che impone di guardare alla crisi con un atteggiamento più responsabile anche dal punto di vista etico da parte della classe dirigente. Senza escludere un intervento sui patrimoni dei più ricchi, come propone Luca di Montezemolo, “benedetto” nella sua nuova veste di aspirante leader dell’opinione pubblica, se non dell’elettorato.



Fiat, insomma, non fa passi indietro: le novità sulla “libertà di licenziare” previsti dalla manovra che promuove il modello Pomigliano non sono un regalo alla Fiat, bensì un primo, timido passo per riallinearsi agli standard internazionali. Ci vorranno ben altri interventi per spezzare un ciclo vizioso che da decenni fa della Fiat e delle poche altre multinazionali nostrane un bersaglio politico, favorendo il nanismo delle piccole imprese che penalizza la produttività. Il Lingotto, nel frattempo, non può aspettare: lo impone il rispetto degli azionisti, ma ancor di più la necessità di sopravvivere in una sfida che si annuncia decisiva per la sua stessa sopravvivenza.

Forse sta qui la chiave del massiccio impegno dei vertici Fiat sul palco di Rimini, in una situazione così diversa da quella del 2010. Un anno fa gli interlocutori di Marchionne erano soprattutto i sindacati e l’opinione pubblica: il gruppo era reduce dallo scontro, durissimo, di Pomigliano ed era in vista della sfida ancor più dura di Mirafiori. Ma, sul fronte internazionale, le prospettive sembravano più chiare, se non migliori: la ripresa Usa premiava la scelta di concentrarsi sul risanamento di Chrysler; le difficoltà del mercato europeo confortavano la decisione di frenare gli investimenti in Europa e di metter ordine in Italia. Intanto, i continui record in Brasile permettevano al Lingotto di muoversi senza fretta su altri mercati, senza compromettere le (poche) risorse finanziarie a disposizione.

Oggi lo scenario è ancora più complesso. Fiat ha realizzato con successo lo split tra Auto e Industrial, ma l’effetto si è già esaurito sul fronte finanziario, mentre segnano il passo le eventuali alleanze nei camion e nel movimento terra. La Fiat, una volta assorbito il controllo di Chrysler, è una multinazionale dell’auto che non può consentirsi il lusso di essere solo “italiana”, cosa che non ha un grande appeal sul mercato dell’auto, ma dev’essere anche italiana perché non c’è spazio per un gruppo “apolide” in un mercato dove le bandiere contano. Come sa bene Marchionne che sogna di averne in futuro almeno quattro (italiana, americana, brasiliana e cinese) sulla scrivania.

Oggi, a differenza di un anno fa, soprattutto, Marchionne ed Elkann sono reduci da una durissima lezione subita sul fronte dei mercato finanziari: la Fiat, nonostante il rimbalzo di ieri, accusa un calo del 40% abbondante in un mese che ha avuto un impatto quasi analogo, in termini di cifre sul portafoglio di Exor, la cassaforte del clan Agnelli, E ancor maggiore sulle stock options di Marchionne, che ha visto bruciare le plusvalenze milionarie tanto pubblicizzate a suo tempo da quei giornali che oggi tacciono su questo particolare.

Oggi, per giunta, le prospettive di mercato sono più grigie che mai. Il mondo quest’anno non assorbirà più di 72-75 milioni di vetture (la forbice dipende dall’andamento del mercato cinese da cui Fiat è in pratica assente), contro gli 85 milioni previsti ancora all’inizio di luglio. Il Lingotto deve subire il pressing dei concorrenti tedeschi, decisi a conquistare la leadership in Sud America, fortissimi in Europa e che, assieme alla Renault, hanno occupato gli spazi disponibili in Russia. L’azienda deve ancora dimostrare di disporre della necessaria abilità per sfondare in Cina, mentre si profila l’ennesimo “flop” in India.

Insomma, il bilancio presenta indiscutibili risultati attivi (l’acquisto e il risanamento di Chrysler, la buona tenuta finanziaria, i prossimi modelli in pipeline) accanto ad alcune delusioni. E al rischio di dover subire il processo delle agenzie di rating, pronte ad avventarsi sul debito ereditato da Chrysler difficile da sostenere se mancheranno i risultati. Per questo si poteva sospettare che Marchionne ed Elkann si presentassero con toni più dimessi e possibilisti in quel di Rimini, se non proprio con il cappello in mano. Ma così non è stato.

Ed è una buona notizia per chi crede che Fiat, al di là della congiuntura, rappresenti ancor oggi uno degli anelli di congiunzione più solidi con l’economia globale di questo Paese. Una realtà che può non piacere, ma che è suicida ignorare.

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