John Elkann ha preso un impegno: “Continueremo a produrre automobili”, ha detto al Meeting di Rimini, smentendo (almeno per il momento) le teorie che vedono gli eredi Agnelli lasciare l’industria per la finanza. Ma ha anche sollevato con franchezza un dubbio: “Non so se lo faremo in Italia o altrove”. Un dubbio che riguarda non solo l’impresa, bensì l’intero Paese: “L’Italia decida se vuole ancora produrre auto”.
Rovesciamo l’ordine dei fattori: quali condizioni pone la Fiat affinché possa ritenere conveniente lavorare nelle fabbriche italiane? E quante vetture è in grado di sfornare, più o meno delle 600.000 attuali? Le condizioni chiave le ha già chiarite Sergio Marchionne: 1) nuovi contratti all’insegna della flessibilità (“se c’è lavoro si guadagna e lavora di più, se non c’è si guadagna e lavora di meno”, ha spiegato semplificando Elkann); 2) no all’aumento dell’Iva: 3) in mancanza di incentivi diretti, occorre un ambiente favorevole. La prima condizione è stata soddisfatta dal governo, almeno sulla carta; la seconda probabilmente lo sarà anche se qui entriamo in una confusa discussione parlamentare; la terza sembra ovvia, ma nasconde un trabocchetto.
Dove produce oggi la Fiat? E in che cosa consiste un ambiente favorevole? In Europa c’è la Polonia, con evidenti vantaggi il primo dei quali è il costo del lavoro. In Serbia a questo si aggiungono ulteriori sostegni fiscali, creditizi, logistici. Lo stesso vale per il Brasile. Tanto che il secondo stabilimento verrà installato nel nord-est, nello stato del Pernambuco che offre tra l’altro una quasi esenzione dalle imposte sulla produzione per dodici anni più dodici.
L’espansione estera della Fiat è legata sì alla scelta giusta e inevitabile di diventare un’impresa multinazionale, come ha ricordato Elkann a Rimini, ma anche ai sostegni e agli incentivi che i governi dei paesi in via di sviluppo offrono. Così fan tutti? La Volkswagen lo fa eccome, ma mantiene un legame anche proprietario con il Land della Bassa Sassonia che finora ha salvato il lavoro a Wolfsburg. La Renault è controllata dalla République che ha un potere di persuasione anche sulla Peugeot. E così via. Dunque, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma non c’è dubbio che Torino sta applicando su scala globale la logica che dal 1980 la spinse sempre più a meridionalizzarsi. Senza denari dei contribuenti niente posti di lavoro: è questa la lezione?
Un dubbio legittimo, anche perché non si capisce che fine abbia fatto, in concreto, il famoso piano Fabbrica Italia. Mentre appare chiaro che Marchionne ha sbagliato a calcolare l’andamento del ciclo economico: ha rinviato il lancio dei nuovi modelli perché pensava che dal prossimo autunno il mercato si sarebbe consolidato, invece c’è il rischio di una ricaduta proprio nei prossimi mesi. Dunque, ancora un rinvio. Alle calende greche?
L’impegno a restare nell’industria, ribadito da John Elkann, manca di un corollario: quanto è disposta a investire la proprietà, quindi la famiglia, nell’automobile? Finora l’acquisizione della Chrysler è avvenuta a costo zero per gli eredi Agnelli, grazie a una serie di fortunate circostanze, all’abilità di Marchionne, al favore di Obama e al fatto che i sindacati erano con le spalle al muro. In futuro? L’amministratore delegato ha messo da parte un tesoretto nel bilancio Fiat, un cuscinetto liquido per affrontare i tempi neri (dunque in questo è stato previdente). Ma come verrà finanziata la nuova gamma promessa urbi et orbi?
I soldi ci sono, ribadiscono al Lingotto. Molto si regge su un atto di fiducia nella magia del top manager. Una fiducia che la Borsa sta cominciando a ritirare. Anche se Elkann ha detto che ciò non lo preoccupa più di tanto, il valore del titolo si è dimezzato rispetto ai mesi delle belle promesse.
Intanto, le cose si fanno difficili sul piano squisitamente industriale. L’operazione 500 negli Usa stenta a decollare. In Europa e in Italia si sono perse quote di mercato. La partnership indiana con Tata non ha funzionato e viene rivista. In Cina “dovrebbe” diventare operativa la joint venture con Guangzhou per 140.000 vetture l’anno, mentre in Russia Marchionne “spera” che il governo accetti al più presto la sua proposta per 200.000 veicoli l’anno. Insomma, proprio sui mercati che ieri Elkann citava come strategici, la Fiat non c’è ancora.
La politica degli annunci, il partiam partiamo, non regge. Marchionne è pragmatico e ha adattato già più volte la sua strategia. Si pensi all’operazione Chrysler: assunto il controllo maggioritario, che accadrà? Chissà, tutto dipende dalla volubilità del mercato. Bene, ma allora meglio dire le cose come stanno, non nascondere la verità. Non era questo, del resto, il messaggio di Giorgio Napolitano che Elkann e Marchionne hanno tanto apprezzato?