Ha fatto scalpore, ma lo scalpore è evaporato in un battere d’occhio. È praticamente caduto nel vuoto il “Patto per la crescita”, promosso a fine luglio da un’impressionante sfilza di sigle, mai prima d’ora tutte insieme compatte: Abi, Alleanza Cooperative Italiane (Confcooperative, Lega Cooperative, Agci), Cgil, Cia, Cisl, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Reteimprese Italia (Confcommercio, Confartigianato, Cna, Casartigiani, Confesercenti) e Ugl.
Un’iniziativa senza precedenti, ma più dimostrativa che sostanzialista. Riepiloghiamo un attimo il “cuore” dell’appello rivolto da tutte le “parti sociali” al governo, perché i principi invocati sono indiscutibili: “Per evitare che la situazione italiana divenga insostenibile occorre ricreare immediatamente nel nostro Paese condizioni per ripristinare la normalità sui mercati finanziari con un immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori. A tal fine si rende necessario un Patto per la crescita che coinvolga tutte le parti sociali; serve una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti e una discontinuità, capace di realizzare un progetto di crescita del Paese in grado di assicurare la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occupazione’’.
Come non essere d’accordo? Già, però un appello così ecumenico da risultare un po’ “doroteo”, come l’ha definito il segretario generale della Uil Luigi Angeletti, per il quale “se facciamo solo teatrino rischiamo di farci un autogol”.
Sante parole. Perché in un Paese dove lo scollamento tra cittadini e Palazzo è ai massimi storici e le formazioni politiche sono tutte in grave crisi di visione e di leadership, il problema non è evidentemente costruire appelli mediaticamente efficaci, ma proporre soluzioni concrete e condivise, in qualche modo assumendo su di sé, fuori dalla politica, le funzioni che ormai la politica dimostra di non saper più svolgere, presa com’è – parole di Giuliano Cazzola, ex segretario Cgil ed oggi senatore del Pdl col vizio sacrosanto dell’apostasia – dai suoi guai giudiziari bipartisan, “in attesa con rassegnazione e passività, dell’offensiva finale dei pm, con il medesimo atteggiamento di chi (sono parole di Winston Churchill) nutre il coccodrillo nella speranza di essere mangiato per ultimo”.
Proprio Cazzola ha annotato che mentre le parti sociali concordavano e firmavano in bella scrittura il loro generico appello, si dividevano su una di quelle cose concrete che proprio alla politica spettano e spesso non finiscono in prima pagina, la riforma dell’apprendistato. La riduzione da cinque a tre anni del periodo di apprendistato, chiesta dalla Cgil, è stata compromissoriamente accettata per i settori delle banche e del commercio, ma non per l’artigianato. Pare che proprio questa divaricazione, minima ma significativa, abbia indotto Angeletti a dissociarsi, perché se nel testo dell’appello si fosse voluto inserire una sola proposta concreta, si sarebbero perse la metà delle firme…
In realtà, la debolezza della politica è anche il riflesso della confusione delle parti sociali, tutte occupate a difendere privilegi e lobby sempre meno difendibili, pur simulando un interesse per il bene collettivo che è poi, sulla carta, compito della politica, che degli interessi particolari deve trarre sintesi, e non dei rappresentanti di quegli interessi! Difficile, quindi, dire se l’appello per la discontinuità verso un “patto per la crescita” sia di destra o di sinistra, perché è semplicemente aria fritta, e si sa: l’aria fritta non sta né di qua, né di là, è ovunque e non serve a niente…
In genere, tutti attenderebbero dalla politica una nuova ripartizione delle pur dimagrite risorse pubbliche, capace di premiare quelle aree del sistema e della società in grado di far ripartire la crescita. Ma all’atto pratico, chiunque si veda anche minimamente danneggiato nei suoi diritti acquisiti da questo o quel pur timido tentativo di riforma, protesta a voce altissima. E di fatto trova nel (nei) governo (i) interlocutori timidissimi e pronti a tirarsi indietro.
In realtà, è il governo che deve prendere l’iniziativa, e meglio sarà l’iniziativa governativa quanto meno contente ne saranno le parti sociali! Proprio perché il loro mestiere, ovvio anche se spesso negato o dissimulato, è difendere gli interessi delle “parti”, appunto, che rappresentano. E questo è il momento dei sacrifici per tutti.
Nel ‘92 l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, in una situazione che sembrava drammatica ma forse lo era meno di quella attuale, convocò le parti sociali e gli impose – praticamente – un accordo, sottoscritto il 31 luglio, minacciando in caso di rifiuto le dimissioni del governo: quello sì che fu un accordo rivoluzionario, che sancì, ad esempio, la fine di ogni sistema di indicizzazione delle retribuzioni, il blocco per 18 mesi della rivalutazione automatica delle pensioni e degli effetti della contrattazione aziendale e un programma di riforme della spesa pubblica (sanità, pensioni, pubblico impiego e finanza locale) che in autunno fu poi varato e venne anche in gran parte attuato, sanando un po’ delle enormi assurdità della situazione precedente.
Insomma, le parti sociali quella volta fecero bene il loro ruolo: accettare di malavoglia di fronte a un governo determinato nell’indicare a tutti la strada dell’interesse collettivo. Stavolta è questo che non si vede: un governo determinato. E le parti sociali non possono, anche volendo, svolgere un ruolo surrogatorio.