Forse il peggio deve ancora venire. La tempesta che ha investito la finanza internazionale non ha perso di forza dopo l’accordo di Bruxelles sugli aiuti alla Grecia. E ha tratto nuova forza dopo l’accordo sul tetto al debito Ue.

Dati questi precedenti, era troppo credere che, a fermare la forza delle vendite, sarebbe servito l’intervento di Silvio Berlusconi o il tavolo tra le parti sociali, unite da uno spirito comune che forse non si vedeva dai tempi del Cln, e lo stesso governo. Sarebbe perciò ingeneroso attribuire alle parole dette dal premier una qualche responsabilità per l’ennesima frana di Piazza Affari o per l’assedio al debito pubblico di casa nostra.



Qualche responsabilità, semmai, va attribuita a quel che Berlusconi avrebbe potuto e dovuto dire in merito ai tempi della manovra, assurdamente spostata in avanti, alle privatizzazioni, che restano nel vago (con forti resistenze nella maggioranza e nella Cgil), e alle riforme. Ma, di fronte a quel che capita sui listini, ci vuol ben altro che una promessa o un’unità di facciata per metter le basi di una ripresa.



Ieri, mentre si teneva il tavolo di Palazzo Chigi, si è prodotto sui tabelloni elettronici di Piazza Affari e sugli altri circuiti internazionali (ormai un terzo delle azioni italiane vengono scambiate in circuiti privati oltre frontiera) un altro strappo, forse il più pericoloso: l’assalto al made in Italy.

Va prendendo corpo un copione degno di un film horror: la tempesta ha prima travolto la diga delle banche, frettolosamente puntellata dagli aumenti di capitale di primavera (e chissà dove sarebbero finiti gli istituti di credito senza quell’iniezione di mezzi freschi). Ad aggravare la situazione sono poi arrivati i guai del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ovvero l’unico esponente di governo con una certa credibilità internazionale. Ed è cominciata, non a caso, la fase più drammatica della caduta dei prezzi del debito pubblico.



In questo modo, il risparmio delle famiglie, il vero punto di forza del Paese, ha subito danni enormi, di cui solo una parte degli italiani ha consapevolezza: quanto valgono i Bot e i Btp comprati fino a pochi mesi fa? E che cifra mi verrà offerta se per caso dovessi liquidare le obbligazioni bancarie che mi sono state consigliate in banca? Quale è o sarà il valore di realizzo della mia casa in un mercato “freddo” che presto farà i conti con le nuove imposte che prima o poi arriveranno?

Ora, a leggere il bollettino quotidiano delle perdite della borsa di Milano, si è entrati in una nuova fase: l’attacco all’industria che esporta. Cioè l’ultimo baluardo del made in Italy che, nei primi cinque mesi dell’anno, ha compiuto il miracolo di stare al passo, per volumi di crescita, dell’economia tedesca che pure dispone di vantaggi competitivi (non ultimo il costo del danaro) sempre più marcati. Ebbene, nel corso dell’ultima settimana, l’uscita dei dati trimestrali (in genere buoni, talora sopra il consensus, talaltra poco sotto) è stata accompagnata da massicce vendite in Borsa, con cali a due cifre.

È il caso della Fiat, ma anche di Brembo, Diasorin, Tenaris e della stessa Prysmian. Si è sottratto a questo destino, in un primo momento, la Pirelli. Ma ieri la mannaia delle vendite è caduta anche sull’azienda della Bicocca, al pari di Saipem. Insomma, una mattanza che non trova spiegazione nei numeri. E allora?

Le spiegazioni possibili sono tre: 1) la più classica è che, nei momenti d’emergenza, la moneta cattiva scaccia quella buona. Pur di salvare il salvabile, insomma, vendo l’argenteria a qualsiasi prezzo; 2) il mondo sta rivedendo bruscamente al ribasso le stime di crescita, con il risultato che le aziende più votate all’export vengono brutalmente ridimensionate. Come capita alle nostre multinazionali, tascabili e non, ma anche a gruppi come Basf, Merck o Peugeot, colpiti da vendite altrettanto massicce; 3) c’è una diffusa sfiducia sulla possibilità del made in Italy di tenere il passo dei mercati. Soprattutto perché l’euro, da fortezza che ci ha difeso contro l’inflazione garantendoci tassi bassi, ideali per investire, si trasforma in una camicia di forza che ci impedisce l’unica mossa di politica economica che l’Italia post bellica ha applicato con coerenza: la svalutazione.

Insomma, se la terza spiegazione è almeno in parte valida, si sta giocando una partita davvero importante. È in gioco la sopravvivenza dell’euro o, più ancora, l’appartenenza dell’Italia al nucleo duro dell’Europa così come venne plasmata da Adenauer, Monnet e De Gasperi. Una sfida grossa, che richiede un mobilitazione eccezionale. Ci vogliono interventi destinati a cambiare le nostre abitudini di vita: l’allungamento della vita lavorativa, ad esempio, che però va messo in relazione a un forte shock fiscale a vantaggio dell’ingresso sul mercato del lavoro di giovani e donne.

Non illudiamoci: comunque vada a finire, nel futuro si dovrà lavorare di più e consumare di meno, se si vuole arrestare il ciclo del declino. Non è un dramma, purché si sappia gestire il processo. Ma se continua a dominare la filosofia dell’egoismo cieco, che nega l’evidenza per il proprio interesse particolare (è tutto un programma il titolo di apertura della Padania: “Il governo è più forte della crisi”) , l’esito sarà davvero drammatico. Alla larga dal qualunquismo di destra e di sinistra, quello che, solo poche settimane fa, ha trionfato nel referendum sull’acqua.

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